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22 Ottobre 2020 By Associazione Cuore Vivo

Diabete tipo 2, il peso conta più della predisposizione genetica

In uno studio presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC 2020) è stato valutato su un’ampia popolazione il rischio di sviluppare la malattia diabetica, confrontando il rischio associato alla predisposizione genetica con quello relativo all’indice di massa corporea (BMI).

È emerso che il BMI è fortemente collegato al rischio di diabete di tipo 2, indipendentemente dalla predisposizione genetica alla malattia. Un risultato che evidenzia l’importanza di un intervento tempestivo sul sovrappeso, che potrebbe prevenire la malattia o invertire il decorso nelle fasi iniziali.

Lo studio

Lo studio ha incluso 445.765 partecipanti presenti nella UK Biobank un registro inglese che include il profilo genetico degli iscritti. L’età media era di 57,2 anni e il 54% erano donne. Altezza e peso sono stati misurati all’arruolamento. I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi in base al rischio genetico di diabete e in cinque gruppi in base al BMI. I partecipanti sono stati seguiti fino a un’età media di 65,2 anni. Durante quel periodo, 31.298 hanno sviluppato il diabete di tipo 2.

I soggetti del gruppo con BMI più alto (in media 34,5 kg/m2) avevano un rischio di diabete 11 volte maggiore rispetto ai partecipanti nel gruppo con BMI più basso (media 21,7 kg/m2). Il gruppo con il BMI più alto aveva una maggiore probabilità di sviluppare il diabete rispetto a tutti gli altri gruppi con BMI, indipendentemente dal rischio genetico.

“I risultati indicano che il BMI è un fattore di rischio molto più importante della predisposizione genetica per il diabete”, ha detto Brian Ference, cardiologo, direttore del Centro per la Ricerca Traslazionale all’Università di Cambridge.

 

I ricercatori hanno quindi utilizzato metodi statistici per stimare se la probabilità di diabete nelle persone con un BMI elevato sarebbe stata ancora maggiore se fossero state in sovrappeso per un lungo periodo di tempo. Hanno scoperto che la durata di un BMI elevato non ha avuto un impatto sul rischio di diabete.

Il professor Ference, ha affermato: “Ciò suggerisce che quando le persone superano una certa soglia di BMI, le loro possibilità di diabete aumentano e rimangono allo stesso livello di rischio elevato indipendentemente da quanto tempo sono in sovrappeso”.

La soglia del rischio è diversa per ogni persona e corrisponde al BMI oltre il quale si notano livelli di zucchero nel sangue anormali.

“I risultati – conclude Ference – indicano che la maggior parte dei casi di diabete potrebbe essere evitata mantenendo l’Indice di Massa Corporea al di sotto del limite che innesca la glicemia anormale. Ciò significa che per prevenire il diabete, sia il BMI che la glicemia dovrebbero essere valutati regolarmente. Gli sforzi per perdere peso sono fondamentali quando una persona inizia a sviluppare problemi di zucchero nel sangue. Potrebbe anche essere possibile invertire il diabete perdendo peso nelle fasi iniziali della malattia prima che si verifichi un danno permanente”.

 

 

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22 Ottobre 2020 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, una dieta sbagliata è il primo fattore di rischio per il cuore

Più di due terzi delle morti per cardiopatia ischemica nel mondo potrebbero essere evitate migliorando la dieta. Questa è la conclusione di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista European Heart Journal – Quality of Care and Clinical Outcomes, una rivista della Società Europea di Cardiologia (ESC).

Nell’anno 2017 la cardiopatia ischemica ha causato 8,9 milioni di morti, che equivale al 16% di tutti i decessi, in aumento rispetto al 12,6% di tutti i decessi rilevato nel 1990.

Tra il 1990 e il 2017 sono quasi raddoppiati i casi di cardiopatia ischemica, anche se è diminuita la prevalenza (-11,8%), l’incidenza (-27,4%) e i tassi di mortalità (-30%) per questa malattia.

Questo vuol dire che “Sono stati compiuti progressi nella prevenzione delle malattie cardiache e nel miglioramento della sopravvivenza, in particolare nei paesi sviluppati, ma il numero di persone colpite continua a crescere a causa della crescita della popolazione e dell’invecchiamento”, spiega Xinyao Liu della Central South University, di Changsha (Cina), autore dello studio.

Quanto pesano i diversi fattori di rischio

I ricercatori hanno calcolato l’impatto di 11 fattori di rischio sulla mortalità per cardiopatia ischemica. Si trattava di:

  1. dieta
  2. ipertensione arteriosa
  3. colesterolo LDL alto
  4. glicemia alta
  5. fumo
  6. indice di massa corporea (BMI) elevato
  7. inquinamento atmosferico
  8. scarsa attività fisica
  9. funzionalità renale compromessa
  10. esposizione al piombo
  11. abuso di alcol

Analizzando il peso di ognuno di questi fattori di rischio e ipotizzando che gli altri non avessero influenza risulta che il 69,2 % dei decessi per cardiopatia ischemica nel mondo potrebbe essere prevenuto se si adottassero diete più sane, il 54,4 % se la pressione arteriosa sistolica fosse mantenuta a 110-115 mmHg, il 41,9% se le LDL sieriche fossero mantenute a 0,7-1,3 mmol/L.

Inoltre circa un quarto dei decessi per cardiopatia ischemica (25,5 %) potrebbe essere prevenuto se la glicemia a digiuno fosse mantenuta a 4,8-5,4 mmol/L, mentre l’eradicazione del fumo e del fumo passivo potrebbe fermare un quinto (20,6 %) dei decessi.
L’uso del tabacco si è classificato al quarto posto nella causa dei decessi per cardiopatia ischemica negli uomini, ma solo al settimo nelle donne. L’alto indice di massa corporea è stato il quinto maggior contributore alle morti per cardiopatia ischemica nelle donne e il sesto negli uomini. Per le donne, il 18,3% dei decessi per cardiopatia ischemica potrebbe essere prevenuto se il BMI fosse mantenuto a 20-25 kg/m2.

“La cardiopatia ischemica, conclude Liu, è ampiamente prevenibile con comportamenti sani e le persone dovrebbero prendere l’iniziativa per migliorare le proprie abitudini. Inoltre, sono necessarie strategie su misura per le diverse aree geografiche. Ad esempio, i programmi per ridurre l’assunzione di sale possono avere i maggiori benefici nelle regioni in cui il consumo è più elevato come la Cina e l’Asia centrale”.

 

 

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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, per le donne è più difficile smettere di fumare

Le donne che seguono programmi medici per smettere di fumare avrebbero la metà delle probabilità di successo rispetto agli uomini. È quanto emerge da uno studio presentato al Canadian Cardiovascular Congress (CCC) 2019, che si è concluso a Montréal, lo scorso 27 ottobre.

Lo studio si basa su un’analisi retrospettiva che ha incluso 233 pazienti, afferenti al St. Michael’s Hospital di Toronto (Canada), tra il 2008 e il 2018.

L’età media dei pazienti era di 56 anni e il 35% era di sesso femminile. I partecipanti hanno riferito di fumare in media 18 sigarette al giorno, nell’arco di un periodo medio di 37 anni. Due terzi (66%) avevano dislipidemia, il 66% ipertensione, il 44% aveva una malattia coronarica e il 28% aveva depressione o ansia.

I partecipanti hanno ricevuto consulenza medica personalizzata e, se necessario, prescrizione di farmaci, come terapia sostitutiva alla nicotina. Dopo sei mesi, 58 (25%) dei partecipanti hanno smesso di fumare e 68 (29%) hanno ridotto il numero giornaliero di sigarette di oltre il 50%.

Nell’analisi regressiva il sesso femminile è risultato un fattore indipendente per il successo del programma, con il 50% di probabilità in meno rispetto a quello maschile.

“Nel nostro studio, le donne avevano  una prevalenza più alta di ansia o depressione rispetto agli uomini (41% contro il 21%), che potenzialmente ha disturbato il processo di cessazione del fumo – ha detto l’autrice dello studio Carolina Gonzaga Carvalho, del St. Michael’s Hospital – Anche i fattori ormonali o sociali avere svolgere un ruolo. Il nostro studio osservazionale non può indicare una causa, ma mostra la necessità di prevedere analisi di genere e trattamenti specifici per i due sessi. ”

Anique Ducharme, Presidente del comitato per il programma scientifico del CCC 2019, ha dichiarato:

“Questo studio fornisce importanti spunti per aiutare il medico a discutere della cessazione del fumo con i propri pazienti. È fortemente necessario un approccio specifico di genere, al fine di ottenere buoni risultati anche per le donne, affrontando l’eventuale presenza di ansia o depressione, fattori ormonali e sociali che sembrano tutti avere un ruolo.”

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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

L’insonnia potrebbe aumentare il rischio di infarto e ictus

Un grande studio osservazionale cinese, appena pubblicato sulla rivista Neurology, ha mostrato un legame fra i principali disturbi del sonno e un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari, come infarto e ictus.

Un dato che, secondo gli esperti, dovrebbe spingere a valutare meglio il rischio cardiaco in persone giovani con problemi di insonnia, anche in assenza di altri fattori di rischio.  Inoltre, lo studio suggerisce che un adeguato trattamento dei disturbi del sonno possa avere effetti positivi anche sulla prevenzione cardiovascolare.

Lo studio

I ricercatori hanno attinto ai dati da uno studio prospettico di coorte, che ha reclutato 487.220 adulti dai 30 ai 79 anni d’età, in 10 aree della Cina. Tutti i partecipanti alla partenza dello studio non avevano cardiopatie, ictus pregresso o tumori.

Sono stati valutati con appositi questionari tre disturbi del sonno: la difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno, il risveglio precoce, i disturbi durante il giorno collegati alla carenza di sonno.

Durante un follow up che si è protratto per quasi 10 anni sono stati documentati 130.032 casi di patologie cardiovascolari (CVD). L’analisi dei dati, dopo correzione per i diversi fattori di rischio ha mostrato che ognuno dei tre sintomi di disturbo del sonno faceva aumentare il rischio di cardiopatia ischemica e ictus. In particolare il risveglio precoce aumenta del 7% il rischio CV, la difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno lo aumenta del 9% e i disturbi diurni del 13%. I partecipanti con tutti e 3 i sintomi presentavano un rischio maggiore del 18% di CVD, del 22% di ipertensione, del 10% di ictus ischemico, rispetto agli adulti senza problemi di sonno.

Le associazioni tra 3 sintomi di sonno disturbato e l’incidenza di CVD erano più forti nei giovani adulti e in quelli senza ipertensione all’inizio dello studio.

Gli autori concludono che i tre sintomi dell’insonnia, da soli o in combinazione, vanno considerati un fattore di rischio indipendente per le malattie cardiovascolari.

I commenti

Tra i primi commenti apparsi su questo studio c’è quello di James Burke, neurologo dell’Università del Michigan (Usa), che invita a valutare con cautela i risultati di questo studio, perché la grande quantità di persone e di dati rende difficile valutare in che misura sia proprio l’insonnia responsabile dell’aumento del rischio cardiaco.

Julio Fernandez-Mendoza, specialista di disturbi del sonno del Penn State College of Medicine, Hershey, Pennsylvania (Usa) fa notare che lo studio suggerisce uno screening più attento di soggetti tra i 30 e i 49 anni che hanno disturbi del sonno, anche in assenza di fattori di rischio come l’ipertensione

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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, perché bisogna mantenersi attivi dopo i sessant’anni

L’attività fisica svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento della salute e nella prevenzione delle malattie. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la sedentarietà è uno dei maggiori fattori di rischio per malattie metaboliche e cardiovascolari. L’OMS raccomanda di mantenere buoni livelli di attività fisica anche dopo i 65 anni di età.

Lo studio

Un nuovo studio coreano, pubblicato sull’European Heart Journal, conferma che dopo i 60 anni di età non ridurre o addirittura incrementare l’attività fisica abbassa il rischio di malattie cardiovascolari. Lo studio ha coinvolto oltre 1,1 milioni di soggetti di età pari o superiore a 60 anni, senza malattie cardiovascolari alla partenza, sottoposti a due screening sanitari nazionali consecutivi tra il 2009 e il 2012. I ricercatori hanno valutato le modificazioni del rischio CV in relazione al livello di attività fisica moderata- intensa (MPVA Moderate Vigorous Physical Activity).

Nella tabella sono indicati alcuni esempi di attività fisica moderata e intensa

Ad ogni controllo sanitario i partecipanti hanno risposto a domande sulla loro attività fisica e stile di vita. I ricercatori hanno calcolato la quantità di esercizio moderato (ad es. 30 minuti o più al giorno di camminata veloce, danza, giardinaggio) ed esercizio fisico intenso (ad es. 20 minuti o più al giorno di corsa, ciclismo veloce, esercizio aerobico) a settimana in ogni screening, e come era cambiato durante i due anni tra i due screening.

L’età media dei partecipanti era di 67 anni e il 47% erano uomini. Circa due terzi hanno dichiarato di essere fisicamente inattivi sia nel primo che nel secondo periodo di screening. Una percentuale più elevata di donne era fisicamente inattiva (78% e 77%) rispetto agli uomini (67% e 66%) in entrambi i periodi di screening. Solo il 22% delle persone inattive ha aumentato la propria attività fisica al momento del secondo controllo sanitario e il 54% delle persone che svolgevano attività fisica cinque o più volte alla settimana al momento del primo screening erano diventate inattive al momento del secondo. Durante il periodo di follow-up si sono verificati in totale 114.856 casi di malattie cardiache o ictus.

I risultati

Le persone che sono passate dall’essere inattive al controllo sanitario 2009-2010 ad essere moderatamente o vigorosamente attive tre o quattro volte alla settimana al controllo sanitario 2011-2012 avevano un rischio di problemi cardiovascolari ridotto dell’11% . Coloro che erano moderatamente o vigorosamente attivi una o due volte alla settimana al primo controllo avevano un rischio ridotto del 10% se aumentavano la loro attività a cinque o più volte alla settimana.

Al contrario, coloro che erano moderatamente o vigorosamente attivi più di cinque volte alla settimana al primo controllo e poi sono diventati inattivi al secondo controllo avevano un rischio di problemi cardiovascolari aumentato del 27%.

Quando i ricercatori hanno esaminato le persone con disabilità e malattie croniche hanno scoperto che coloro che sono passati da inattivi ad essere moderatamente o vigorosamente attivi tre o quattro volte alla settimana hanno anche ridotto il rischio di problemi cardiovascolari. Le persone con disabilità avevano un rischio ridotto del 16% e quelle con diabete, aumento della pressione sanguigna o livelli di colesterolo avevano un rischio ridotto tra il 4 e il 7%.

Kyuwoong Kim, del Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Seoul (Corea del Sud) primo autore dello studio,  ha dichiarato: “Il messaggio più importante di questa ricerca è che gli adulti più anziani dovrebbero aumentare o mantenere la frequenza di esercizio per prevenire le malattie cardiovascolari. A livello globale, questa scoperta è importante per la salute pubblica perché la popolazione mondiale di età pari o superiore a 60 anni dovrebbe raggiungere i due miliardi entro il 2050. Con l’invecchiamento si possono avere maggiori difficoltà a svolgere un’attività fisica regolare, la nostra ricerca suggerisce che è necessario essere più attivi fisicamente per la salute cardiovascolare, e questo vale anche per le persone con disabilità e condizioni di salute croniche.”

“Riteniamo che i governi – conclude Kim – dovrebbero promuovere programmi per incoraggiare l’attività fisica tra gli anziani. Inoltre, dal punto di vista clinico, i medici dovrebbero “prescrivere” l’attività fisica insieme ad altri trattamenti medici raccomandati per le persone ad alto rischio di malattie cardiovascolari “.

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