Cuore Vivo ONLUS

  • CHI SIAMO
  • DOCUMENTI
  • ISCRIZIONI
  • DONAZIONI
  • PERIODICO
  • NEWS
  • CONTATTI

31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Ipertensione, le malattie delle gengive sono associate alla pressione alta

Chi soffre di patologie alle gengive (periodontiti) è più a rischio di ipertensione. Il dato emerge con chiarezza in uno studio pubblicato su Cardiovascular Research.

Francesco D’Aiuto del prestigioso Eastman Dental Institute, riassume così i risultati dello studio: “Abbiamo osservato un’associazione lineare: più la parodontite è grave, maggiore è la probabilità di ipertensione. I risultati suggeriscono che i pazienti con malattia gengivale dovrebbero essere informati del loro rischio e invitati a cambiare stile di vita per prevenire l’ipertensione.”

Ricerche precedenti hanno già indicato una possibile associazione tra periodontiti e pressione alta, questo studio conferma l’associazione con una metanalisi di 81 studi, condotti in 26 paesi.

La parodontite da moderata a grave risultata associata ad un rischio di ipertensione aumentato del 22 % , mentre la parodontite grave è associata a una probabilità di ipertensione maggiore del 49 %. Inoltre si può osservare un aumento del rischio di ipertensione con l’aggravarsi della patologia gengivale.

I soggetti con periodontite confrontati c on quelli con gengive sane hanno in media valori più alti di 4,5 mm Hg per la pressione sistolica e 2 mm Hg per la pressione diastolica. “Differenze non  trascurabili, infatti un aumento medio della pressione arteriosa di 5 mm Hg è collegato a un aumento del 25% del rischio di morte per infarto o ictus.”

I ricercatori hanno notato che al momento non ci sono dati sufficienti per sapere se curando le gengive si ottiene una riduzione dei valori pressori, sono necessari quindi studi specifici su questo aspetto.

Per quanto riguarda i potenziali motivi dell’associazione tra gengiviti e pressione alta l’ipotesi più accreditata è che i batteri orali possano causare stati infiammatori generali che coinvolgono anche i vasi sanguigni. Anche la  predisposizione genetica potrebbe svolgere un ruolo, insieme a fattori di rischio condivisi come il fumo e l’obesità.

“In molti paesi del mondo, la salute orale non viene controllata regolarmente e la malattia gengivale rimane non trattata per molti anni. L’ipotesi è che questa situazione di infiammazione orale e sistemica si accumuli in aggiunta ai fattori di rischio esistenti. “

Infine, gli autori dello studio fanno notare che questi indicano che la malattia gengivale possa essere un fattore di rischio per l’ipertensione, ma potrebbe anche essere vero il contrario, ossia l’ipertensione potrebbe essere causa di periodontiti. “Sono necessarie ulteriori ricerche – scrivono gli autori dello studio – per capire se i pazienti con ipertensione arteriosa hanno una maggiore probabilità di malattie gengivali. In ogni caso sembra opportuno fornire consigli sulla salute orale a coloro che sono ipertesi.”

Filed Under: News

31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Attacco cardiaco: attenzione a non sottovalutare i sintomi levi

Quando i sintomi di un attacco cardiaco iniziano gradualmente e non sono successivi a uno sforzo, i pazienti hanno difficoltà a riconoscerne la gravità e si recano in pronto soccorso in ritardo, rischiando così di perdere una

finestra oraria importante per preservare la funzione cardiaca.

È quanto emerge da uno studio condotto negli USA dal team coordinato da Sahereh Mirzaei dell’Università dell’Illinois di Chicago.

Lo studio

Gli autori hanno analizzato i dati relativi a pazienti partecipanti a un più ampio studio sul cuore condotto in diversi Stati degli USA.

Successivamente si sono focalizzati su 343 uomini e 131 donne, di età compresa tra i 29 e i 93 anni, ricoverati in pronto soccorso e per una sindrome coronarica acuta, successivamente confermata.

Quasi la metà dei rispondenti, il 44%, ha segnalato un’insorgenza graduale dei sintomi; il resto sintomi improvvisi. Inoltre, la metà dei pazienti ha impiegato quattro o più ore prima di andare in ospedale.

Quelli i cui sintomi si erano presentati gradualmente hanno impiegato fino a sei ore in più degli altri pazienti per chiedere un aiuto medico e recarsi in ospedale.

In un attacco cardiaco improvviso, i pazienti manifestano un forte dolore fin dall’inizio. Invece, i sintomi di un attacco graduale – leggero malessere, difficoltà a respirare e tensione al torace – non sono così netti, come

sottolineano gli autori dello studio.

“I sintomi possono apparire e scomparire, ma la patologia cardiaca no. Conoscete i vostri sintomi e cercate assistenza medica immediatamente”, conclude l’autrice principale dello studio

Filed Under: News

31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Omega-3, nuove conferme sui benefici cardiovascolari

Il consumo giornaliero di Omega-3 riduce il rischio di infarto, morte per coronaropatia o altre cause cardiovascolari ma non di ictus. Queste le conclusioni di una metanalisi condotta dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health e dal Brigham and Women’s Hospital.

Si tratta dell’aggiornamento di una metanalisi precedente cui sono stati aggiungi i dati di altri tre trial: Vital, sino a oggi il più ampio mai condotto sugli omega 3, Ascend e Reduce-it. La popolazione esaminata è stata così di circa 130 mila persone totali, provenienti nel complesso da 13 trial randomizzati, maschi per il 60% dei casi, un’età media al basale di 64 anni, Bmi 28 Kg/m2 e follow up di 5 anni. Nel 40% dei casi si trattava di diabetici, mentre il 72% utilizzava farmaci anti-colesterolo al momento dell’arruolamento. La dose di omega 3 variava, nei diversi trial, tra 376 e 4.000 mg/die.

Il consumo giornaliero di Omega-3 determinava un minor rischio di eventi cardiovascolari, eccetto l’ictus, rispetto al placebo, con un 8% in meno di infarto o morte per malattia coronarica. Un effetto nettamente dose-risposta che suggerisce un dosaggio consigliato sopra gli 840 mg/die.

“Si tratta della meta-analisi con le informazioni più aggiornate relative agli effetti della supplementazione di Omega-3 sul rischio di eventi cardiovascolari”, dice Yang Hu, del dipartimento di nutrizione della Harvard Chan School e tra gli autori dello studio. “Abbiamo infatti potuto riscontrare significativi esiti protettivi, con un evidente effetto dose-risposta”.

Così Joann Manson, capo della divisione di medicina preventiva presso il Brigham and Women’s Hospital e coordinatore dello studio Vital sugli omega-3: “Sebbene sia sempre opportuno insistere su un maggior consumo di pesce, una dieta sana, maggiore attività fisica e l’adozione di altri stili di vita benefici per la salute del cuore, questo studio suggerisce che l’integrazione con omega-3 può svolgere un ruolo importante in pazienti selezionati“.

Filed Under: News

31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Carni rosse e processate, si riaccende la polemica dopo nuove linee-guida rassicuranti

Carni rosse e processate di nuovo al centro del dibattito dopo la pubblicazione sugli Annals of internal medicine, nei giorni scorsi, di nuove linee guida, a cura del Consorzio Nutrirecs, secondo le quali non è necessario limitarne il consumo.

In netta contraddizione con quanto, a oggi, viene raccomandato dalle linee guida americane sull’alimentazione che indicano un limite di una porzione a settimana e da quelle inglesi che invitano a non superare i 70 g/die, nonché dai moniti delle maggiori organizzazione scientifiche internazionali, a partire dal  World cancer research fund (Wcrf) e dall’ American institute for cancer research che invitano a un consumo limitatissimo di carne rossa, piuttosto che la Iarc (International agency for research on cancer) afferente all’Oms che ha classificato come “probabilmente cancerogene” le carni rosse e “cancerogene” quelle processate.

Nel lavoro pubblicato sugli Annals, un panel internazionale di ricercatori delle Università canadesi McMaster e Dalhousie ha effettuato cinque revisioni sistematiche della letteratura. La prima, su 12 trial e 54 mila persone, non ha evidenziano una correlazione statisticamente significative tra consumo di carne e rischio di malattia cardiaca, tumori o diabete.

Altre tre sono state condotte su studi di coorte di milioni di persone, evidenziando solo un “piccolo” aumento del rischio con un consumo di carne rossa o processata tre volte alla settimana, rischio sostenuto, dicono gli autori, da prove di bassa qualità.

Infine, una quinta, condotta su comportamenti e gusti dei “carnivori”, sottolinea il loro convincimento che la carne faccia bene alla salute e l’indisponibilità a cambiare comportamenti alimentari di fronte a effetti potenzialmente nocivi.

Così, dunque, le conclusioni della ricerca: non vi sono motivi per modificare il proprio consumo abituale di carne rossa o trasformata (3-4 volte a settimana la media in Nord America ed Europa), sebbene il livello di evidenza di queste affermazioni venga segnalato come medio-basso.

Proteste dalla comunità scientifica internazionale

A questo punto, apriti cielo. Già a scopo preventivo, un gruppo di 13 importanti ricercatori in ambito nutrizionale, tra cui uno dei coautori della ricerca, aveva esortato l’editor in chief degli Annals, Christine Laine, a non pubblicare lo studio, “in attesa di un’ulteriore revisione”: evidenze modeste, sottolineavano in una lettera,  “non sono in alcun modo una base logica o persino razionale per suggerire raccomandazioni”.

In un documento a firma congiunta, il Wcrf e la stessa Iarc, insieme a una decina di prestigiose società scientifiche, si sottolinea come “Il pubblico potrebbe essere messo a rischio se interpreta questa nuova raccomandazione nel senso che può continuare a mangiare tutta la carne rossa e lavorata che vuole senza aumentare il rischio di cancro. In realtà il messaggio da dare è che non dovremmo mangiare più di tre porzioni di carne rossa alla settimana e mangiare poca, se non addirittura per nulla, carne lavorata. Ci atteniamo alla rigorosa ricerca degli ultimi 30 anni ed esortiamo il pubblico a seguire le attuali raccomandazioni sulla carne rossa e sulla carne lavorata”.

Durissima la Harvard school of public health, che sottolinea innanzitutto il fatto come le conclusioni dei ricercatori contraddicano quanto loro stessi raccontano nelle metanalisi che invece, lette correttamente, confermano tutti i rischi legati al consumo di carne. Si definisce sorpresa per il fatto che una rivista così prestigiosa  si sia prestata alla pubblicazione di linee guida, giudicate irresponsabili e non etiche, di un panel autonominatosi, senza alcuna condivisione all’interno della comunità scientifica, ribadendo che non possono in alcun modo essere messe in discussione le evidenze di studi clinici randomizzati ed epidemiologici sui rischi cardiovascolari, metabolici e oncologici legati al consumo di carni rosse e lavorate.

Critiche, infine, anche sul fatto che il lavoro degli Annals non prenda in esame l’impatto ambientale del consumo di carne che invece ha ricadute importanti per la salute.

Filed Under: News

31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Dieta giapponese, presidio di longevità e vita in salute

Al fianco della rinomata e apprezzata dieta mediterranea, sta crescendo una sempre maggiore attenzione verso la cucina dell’Estremo Oriente.

Nonostante si differenzino per alimenti e metodi di preparazione, dieta mediterranea e giapponese condividono molti dei nutrienti necessari per una vita lunga e sana: cereali (noi più per pane e pasta, loro più propensi al riso), carni bianche, pesce, legumi (noi più fagioli, ceci, lenticchie, loro più soia), formaggi meno grassi (latticini per i “mediterranei”, tofu per i giapponesi), verdura, frutta fresca e, come condimento, olio d’oliva extravergine contro la soia.

Il tema è stato al centro del convegno “Dieta giapponese e prevenzione oncologica”, promosso a Roma nei giorni scorsi da Astellas, utile occasione per ribadire l’importanza dell’alimentazione nella prevenzione e nella lotta alle patologie oncologiche, con specifico riferimento al carcinoma prostatico.

Dieta mediterranea e giapponese sono considerate da numerosi studi le forme di alimentazione più sane e dal 2014 sono state riconosciute patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco. Tra i principali benefici, si riscontrano una più alta aspettativa di vita e la riduzione di malattie cardiovascolari, diabete e cancro.

Alla dieta mediterranea si associa un’aspettativa di vita di 79 anni, mentre per quella giapponese è di 85. In aggiunta, si riscontra una riduzione del rischio di ictus, cancro e malattia di Parkinson rispettivamente del  25, 22 e 35% con la mediterranea, rispetto a 27, 46 e 50% con la giapponese.

“La presenza di fibre, acidi grassi mono e poli-insaturi, sali minerali e un’elevata quantità di sostanze antiossidanti, tipica delle due tipologie di dieta, fornisce all’organismo una protezione contro i processi infiammatori e contro l’invecchiamento cellulare”, sottolinea Silvia Migliaccio, medico specialista in Scienze della nutrizione umana, e segretario generale della Società italiana di scienza dell’alimentazione. “tali nutrienti svolgono così un ruolo fondamentale nella prevenzione di malattie metabolico-croniche, quali patologie cardiovascolari, diabete mellito e patologie tumorali”.

Sorpresa destano i dati sull’incidenza del cancro prostatico che nei Paesi occidentali arriva, per esempio negli Usa, al 40% mentre in Giappone si attesta intorno al 10%.

“Dal punto di vista clinico, l’alimentazione giapponese risulta efficace nella prevenzione secondo una duplice prospettiva”, dice Andrea Tubaro, direttore UOC di Urologia presso l’Ospedale Sant’Andrea di Roma. Anzitutto, la dieta giapponese è ricca di cibi come tofu, edamame, germogli di soia, caratterizzati da estrogeni deboli, cioè sostanze di derivazione naturale con una debole attività estrogenica; l’assunzione fin dall’infanzia di cibi con estrogeni deboli genera un’azione protettiva sul tumore della prostata. In secondo luogo, è molto povera di grassi saturi, che sono dannosi per l’organismo poiché innalzano i livelli del colesterolo, la cui alterazione può generare complicanze di tipo cardiovascolare”.

I benefici della “dieta giapponese” nella prevenzione del cancro della prostata sembrano strettamente correlati alla produzione di equolo, metabolita chiave della daidzeina, uno degli isoflavoni glicosidici presenti nella soia. L’equolo si forma dopo idrolisi intestinale della daidzeina e successiva biotrasformazione da parte della flora batterica del colon e risulterebbe in grado di bloccare l’azione del diidrotestosterone (Dht), ormone maschile correlato all’ipertrofia prostatica e al tumore. Inoltre, alcune recenti ricerche hanno evidenziato una benefica correlazione tra dieta giapponese ed evoluzione del tumore prostatico.

Così Marco Silano, responsabile UO Alimentazione, nutrizione e salute all’Istituto superiore di sanità:  “È ormai assodato che esista un rapporto bidirezionale tra i nostri geni e i nutrienti che assumiamo con la dieta. Il patrimonio genetico determina la risposta di ciascun individuo ai nutrienti. Parallelamente, gli stessi nutrienti modificano l’espressione dei geni, silenziandone alcuni e attivandone altri. Tale effetto epigenetico si esercita non solo nell’arco di tutta la vita, ma inizia già durante il periodo fetale, oltre ad avere anche una trasmissione transgenerazionale. Alla luce del rapporto tra cibo e geni, le diete tradizionali, quali la mediterranea e la giapponese, presentano uno stretto legame tra la popolazione, il territorio e le tradizioni culturali, a cui i geni “protettivi” nei confronti delle malattie cronico-degenerative si sono selezionati nel tempo”.

Filed Under: News

  • « Previous Page
  • 1
  • 2
  • 3
  • 4
  • 5
  • 6
  • …
  • 31
  • Next Page »

Leggi il periodico Cuore Vivo

MENU

  • Documenti
  • Associazione Cuore Vivo ONLUS
  • Iscrizioni
  • Donazioni
  • Periodico
  • Contatti

SOCIAL

Seguici anche su Facebook

Copyright © 2025 · ASSOCIAZIONE CUORE VIVO ONLUS - Via della Montagnola, 81 - 60131 Ancona, C.F. 93022590421 - Privacy Policy - Cookie Policy