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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Sonniferi, l’uso frequente potrebbe aumentare il rischio di demenza

L’uso frequente di sonniferi potrebbe aumentare il rischio di sviluppare una demenza negli anni successivi. Lo suggerisce una ricerca condotta dall’Università della California, San Francisco (USA) e presentata all’Alzheimer’s Association International Conference (AAIC) 2019.

Yue Leng e coll. hanno preso in considerazione 3.068 adulti senza demenza di età compresa tra 70 e 79 anni. Inseriti nello studio Health, Ageing e Body Composition (Health ABC). I partecipanti hanno segnalato l’uso di farmaci per il sonno nel periodo 1997-1998 e sono stati seguiti nei 15 anni successivi, fino al 2013. Un totale di 147 (4,8%) partecipanti hanno riferito di aver assunto farmaci per il sonno “a volte” (da 2 a 4 volte al mese), 172 (5,6%) hanno riferito di assumere farmaci per il sonno “spesso” (5-15 volte al mese) o “quasi sempre” (16-30 volte al mese). I pazienti che hanno dichiarato di assumere farmaci per il sonno “spesso” o “quasi sempre” avevano il 43% di probabilità in più di sviluppare demenza rispetto a quelli che non avevano assunto mai o raramente farmaci per il sonno (HR 1,43, IC 95% 1,01-2.02).  Le associazioni sono risultate indipendenti da età, sesso, istruzione, stato socio-economico, fumo, uso di alcool, indice di massa corporea, sintomi depressivi, attività fisica, co-morbilità, genotipo di APOE 4 e disturbi del sonno.

Il sonno come indicatore di salute del cervello

David Knopman, neurologo clinico presso la Mayo Clinic di Rochester, Minnesota, che ha moderato la presentazione di questo studio al congresso dell’AAIC ha ricordato che: “nel corso della vita, il sonno è chiaramente un indicatore della salute e della salute del cervello in generale: se il sonno è direttamente correlato alla malattia di Alzheimer come causa dell’accumulo di proteine beta-amiloide e tau (indicatori di Malattia di Alzheimer ndr), o se è un marker di salute non specifico è un tema al centro della ricerca.”  Il Ricercatore però fa notare che questi dati non indicano un rapporto causale tra l’uso di farmaci per il sonno e il successivo deterioramento cognitivo. Non si può dire dallo studio che i farmaci per il sonno causino danni cognitivi futuri, ha detto Knopman – Ottenere una migliore comprensione dei meccanismi di questa associazione è un problema chiave per la ricerca futura”.

Yue Leng, primo autore dello studio, ricorda che: “I sonniferi sono uno dei farmaci più frequentemente prescritti negli Stati Uniti tra gli adulti più anziani e si stima che 1 su 5 anziani prende regolarmente i farmaci per il sonno”, ha detto Leng. “Sorprendentemente, gli effetti dell’uso di farmaci per il sonno negli anziani sono poco studiati. La maggior parte delle ricerche precedenti si è concentrata su eventi avversi a breve termine correlati all’uso di farmaci per il sonno, come un aumento del rischio di cadute o un aumento del rischio di perdita della memoria a breve termine. Gli effetti a lungo termine dell’uso di farmaci per il sonno sulle capacità cognitive non sono chiari “, ha osservato Leng.

“Anche se non conosciamo il meccanismo esatto alla base dell’associazione tra sonniferi e maggior rischio di demenza, speriamo che questa ricerca aumenti la cautela tra i medici quando prescrivono farmaci per il sonno ai pazienti ad alto rischio di demenza”,

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

La vita sessuale protegge il cuore dopo un infarto

I sopravvissuti ad attacchi di cuore con una vita sessuale attiva hanno meno probabilità rispetto alle controparti non attive di morire nei decenni successivi a un primo attacco di cuore. 

I ricercatori – guidati da Yariv Gerber e colleghi dell’Università di Tel Aviv –  hanno seguito per 22 anni 1.120 uomini e donne, che avevano 65 anni o meno al momento del loro primo infarto. Durante il periodo di studio, 524 individui sono morti.

Rispetto alle persone che hanno riferito di non aver fatto sesso nell’anno precedente l’attacco di cuore, coloro che avevano avuto rapporti sessuali più di una volta alla settimana hanno fatto registrare il 27% di probabilità in meno di morire nell’arco del periodo di studio, mentre quelli che avevano fatto sesso settimanalmente avevano il 12% di probabilità in meno e le persone che lo facevano occasionalmente si attestavano all’’8%.

La connessione tra sesso e probabilità di sopravvivenza è apparsa ancora più forte per le persone con vite sessuali attive dopo un attacco cardiaco, ma con differenze minori tra le persone sessualmente attive.

Rispetto ai sopravvissuti che non hanno fatto sesso, quelli che hanno avuto rapporti meno di una volta alla settimana durante il periodo di follow-up hanno avuto il 28% di probabilità in meno di morire, quelle che hanno fatto sesso settimanalmente il 37% e quelle più di una volta alla settimana il 33% di probabilità in meno.

“Non sorprende che le persone sessualmente attive abbiano avuto maggiori probabilità di avere una relazione, fossero più giovani e generalmente più sane”, dice Andrew Steptoe, capo del dipartimento di Scienze comportamentali e salute presso l’University College di Londra nel Regno Unito, non coinvolto nello studio.

Le persone che avevano avuto rapporti più di una volta all’anno nei 12 mesi precedenti il loro attacco di cuore avevano in media 49 anni all’inizio dello studio, rispetto a un’età media di 58 anni di chi non aveva fatto sesso l’anno prima dell’attacco di cuore.

Le persone sessualmente inattive avevano anche maggiori probabilità di avere ipertensione, colesterolo alto, diabete e molteplici problemi di salute cronici nell’anno precedente l’attacco di cuore rispetto a chi aveva fatto sesso più di una volta alla settimana.

Meno della metà delle persone sessualmente inattive ha vissuto con un partner stabile nell’anno precedente l’attacco di cuore, rispetto al 94% delle persone che hanno fatto sesso più di una volta alla settimana. Quando i ricercatori hanno aggiustato i dati per età, stile di vita, altre condizioni di salute e fattori socioeconomici, il legame tra l’essere sessualmente attivi e la sopravvivenza si è indebolito,.

“È possibile che il sesso frequente porti a cambiamenti biologici che aiutano le persone a vivere più a lungo, ha scritto il team di Gerber.

Il sesso regolare è collegato a livelli più alti del testosterone negli uomini e nelle donne. Il basso livello di testosterone è associato sia a un aumentato rischio di malattie cardiovascolari sia a un basso desiderio sessuale, quindi le persone che hanno più rapporti sessuali possono anche avere un rischio inferiore di problemi cardiaci.

È anche possibile che l’essere sessualmente attivi sia un segno di salute migliore piuttosto che una causa di questa. Lo studio non è stato progettato per determinare se o in che modo il sesso potrebbe aiutare i sopravvissuti all’attacco di cuore a vivere più a lungo.

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Le sette semplici regole che proteggono cuore e cervello

Li chiamano i sette semplici passi salvavita (Life’s simple 7) e sono le raccomandazioni dell’American Heart Association per proteggere la salute dell’apparato cardiovascolare.

Un nuovo studio rivela che seguire queste regole di comportamento da 50 anni di età ha un effetto positivo anche per evitare o allontanare l’insorgenza di demenze e malattie neurodegenerative nei decenni successivi.

I sette comportamenti salvavita  (Life’s Simple 7)

  1. controllare la pressione sanguigna
  2. controllare il colesterolo
  3. tenere bassa la glicemia
  4. rimanere fisicamente attivi
  5. seguire una dieta sana
  6. perdere peso
  7. non fumare

Severine Sabia e colleghi del Dipartimento di epidemiologia dell’invecchiamento e delle malattie neurodegenerative dell’Inserm (Università di Parigi) hanno pensato di verificare l’adesione a questi comportamenti in una popolazione di cinquantenni e poi controllare la possibile associazione con l’incidenza di demenza nei successivi 25 anni. I risultati sono stati pubblicati sul British Medical Journal.

Su 7.899 partecipanti, durante il periodo di follow-up medio di 25 anni, 347 hanno sviluppato demenza a una media di 75 anni d’età. I ricercatori hanno valutato l’aderenza ai sette parametri della prevenzione, attribuendo un punteggio di tre punti per ciascuno di essi.
L’adesione dei partecipanti allo studio è stata classificata: scarsa (punteggio 0–6), intermedia (7–11) e ottimale (12–14).

Dopo l’opportuno aggiustamento statistico per potenziali fattori confondenti, la ricerca ha rivelato che un elevato punteggio di aderenza ai sette parametri di prevenzione cardiovascolare era correlato con un minor rischio di demenza.

Nello specifico, nel gruppo con punteggio scarso, la demenza si è verificata con un tasso di 3,2 casi per 1.000 persone l’anno. Nel gruppo con un punteggio cardiovascolare intermedio, la percentuale era di 1,8/1.000, mentre solo 1,3 casi di demenza per 1.000 persone per anno si sono verificate tra coloro che avevano ottenuto il punteggio più alto.

Gli effetti sul volume del cervello alla risonanza magnetica

Inoltre 771 partecipanti allo studio sono stati sottoposti a esami con risonanza magnetica (RM) per valutare l’associazione tra salute cardiovascolare all’età di 50 anni con il volume del cervello intero (somma della materia grigia e bianca), il volume della materia grigia e il volume della sostanza bianca, nonché con i livelli di iperintensità della materia bianca e atrofia dell’ippocampo  in media dopo 20 anni.

Un punteggio di salute cardiovascolare più elevato (con un incremento di 1 punto) è stato associato a volumi cerebrali più alti in media dello 0,14% ( 0,06% – 0,22%) e volumi di materia grigia più alti dello 0,12% ( 0,06% allo 0,19%). Un più alto punteggio di salute cardiovascolare è stato associato ad una minore atrofia dell’ippocampo, ma i risultati non hanno raggiunto la significatività statistica (P = 0,07).

Gli autori sottolineano che questo studio osservazionale non può stabilire un rapporto di causa-effetto tra l’aderenza ai parametri cardiovascolari e la prevenzione della demenza. Tuttavia i dati indicano che un comportamento salutare per il cuore dopo i cinquant’anni ha effetti positivi anche sulle funzioni cognitive.

“La prevenzione – scrivono gli autori dello studio – è un elemento importante per affrontare la sfida dall’attesa triplicazione dei casi di demenza entro il 2050. I nostri risultati suggeriscono che i parametri dei Life’s Simple 7, che indicano lo stato di salute cardiovascolare all’età di 50 anni possono definire il rischio di demenza in modo sinergico. I fattori di rischio cardiovascolare modificabili sono obiettivi strategicamente importanti per la prevenzione. Questo studio supporta politiche di salute pubblica rivolte a migliorare la salute cardiovascolare a 50 anni per tutelare anche la salute cognitiva.”

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Arriva la dieta dell’orologio: tutti i pasti in 6 ore

Tutti i pasti entro sei ore: è la dieta dell’orologio, il rimedio per bruciare grassi senza ridurre le calorie nel piatto. A sostenerlo è uno studio condotto dalla ricercatrice italiana Eleonora Poggiogalle del Pennington Biomedical Research Center in USA con l’équipe di Eric Ravussin e Courtney Peterson e attualmente all’Università Sapienza di Roma.

Si comincia alle 8 del mattino con la colazione, si passa al pranzo verso le 11 per concludere, intorno alle 14.00 con la cena. Per le restanti 18 ore? Digiuno. “Il nostro è il primo studio clinico randomizzato sull’influenza degli orari dei pasti sul metabolismo e sulla riduzione della massa grassa in eccesso”, spiega Poggiogalle. La “dieta dell’orologio” non è un regime ipocalorico, né prevede la riduzione di zuccheri o grassi, è un’alimentazione bilanciata (che contiene il 50% di carboidrati, il 35% di grassi e il 15% di proteine) che ha come unica clausola rispettare gli orari dei pasti, limitando l’assunzione calorica nella prima parte della giornata (secondo i ritmi naturali del corpo o circadiani), continua Poggiogalle.

Lo studio ha coinvolto un piccolo gruppo di pazienti di entrambi i sessi, di 20-45 anni, tutti sovrappeso (dai 68 ai 100 kg di peso). A rotazione i partecipanti dovevano o consumare i pasti nell’arco di 12 ore (dalle 8 del mattino alle 20) per 4 giorni di seguito e poi sempre per 4 giorni mangiare solo nell’arco di 6 ore e digiunare per il resto della giornata. “Nei partecipanti sottoposti a ‘Early-time restricted-feeding’ (una forma di “digiuno intermittente”), i tre pasti sono stati somministrati alle ore 8, 11 e 14 – spiega Poggiogalle – mentre nel gruppo di controllo alle 8, alle 14 e alle 20, secondo la media abituale degli orari dei pasti principali per la popolazione statunitense”.

Durante la ‘dieta dell’orologio’ dopo l’ultimo pasto delle 14 non era consentita l’ingestione di alcun alimento, lasciando trascorrere circa 18 ore di digiuno fino al pasto successivo, continua.    Anche se intuitivamente si pensa che in queste 18 ore la fame vada via via crescendo, sottolinea Poggiogalle, “lo studio ha rivelato che la distribuzione dei pasti entro le sei ore produce in realtà una riduzione dei livelli di ‘grelina’, un ormone responsabile della sensazione di fame, altresì la sensazione di sazietà e il desiderio di cibo hanno mostrato la tendenza a ridursi”.

Inoltre, a parità di dieta, consumare i tre pasti nell’arco di sei ore nella prima parte della giornata ha un effetto “brucia-grassi” dovuto alla durata del digiuno che favorisce la mobilizzazione delle ‘scorte adipose’ nel corpo, senza essere nocivo perché è limitato nel tempo. Sia la diminuzione dell’appetito, sia l’effetto brucia-grassi, conclude l’esperta, provano il potenziale dimagrante di questa dieta che andrà adesso sperimentata per più lunghi periodi di tempo per confermarne l’efficacia.

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Riparare i danni dell’infarto con le cellule staminali: si può fare!

La rigenerazione del tessuto cardiaco con il trapianto di cellule staminali è una delle opzioni terapeutiche più promettenti per offrire un’alternativa al trapianto di cuore dopo le forme più gravi di infarto del miocardio.

In uno studio su animali da laboratorio è stato sperimentato con successo un nuovo approccio basato sull’effetto sinergico di un doppio trapianto di cellule staminali, che punta a recuperare contemporaneamente la funzionalità del muscolo cardiaco e la vascolarizzazione dell’area compromessa dall’infarto.

La ricerca è stata realizzata da un team della Konkuk University, della Catholic University of Korea, della Pohang University of Science and Technology e del T&R Biofab in Corea del Sud. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

Tecnicamente si tratta dell’impiego di due tipi di cellule staminali, vale a dire le cellule staminali mesenchimali derivate dal midollo osseo umano (hMSC) e i cardiomiociti derivati ​​da cellule staminali umane pluripotenti (hiPSC-CMs).

Studi precedenti hanno descritto separatamente i benefici dell’uso di queste due distinte cellule staminali nella riparazione cardiaca, in questo studio sono state impiegate simultaneamente. Gli hiPSC-CM sono stati iniettati per via intramiocardiale direttamente nel cuore del ratto, mentre un cerotto caricato con hMSC è stato impiantato ai bordi dell’area dell’infarto, come una benda.

I risultati hanno mostrato che questo duplice approccio ha portato a un significativo miglioramento della funzione cardiaca e al potenziamento della formazione dei vasi del cuore dopo l’infarto. Il cerotto impiantato con hMSC non solo ha fornito un micro-ambiente che ha migliorato la rigenerazione vascolare, ma ha anche migliorato la ritenzione di hiPSC-CMs, aumentando la funzione cardiaca e ripristinando il miocardio compromesso.
La maturazione funzionale degli hiPSC-CMs iniettati per via intramuscolare è particolarmente importante, perché può ridurre il potenziale rischio di aritmie, una delle principali cause di morte cardiaca improvvisa.

“Riteniamo che questo nuovo duplice approccio possa potenzialmente offrire benefici traslazionali e clinici nel campo della rigenerazione cardiaca”, ha affermato Ban Kiwon, biologo delle cellule staminali, Dipartimento di Scienze biomediche, City University (Honk Kong). “Basato sullo stesso principio, il protocollo può anche essere utilizzato per riparare altri organi tra cui cervello, fegato e pancreas in cui coesistono più tipi di cellule staminali”.

Il team sta lavorando a studi di follow-up su modelli animali più grandi come i maiali

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