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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

La magrezza è nei geni

La magrezza si può aiutare, ma non si decide: a stabilirla sono i geni. Secondo una ricerca condotta dall’Università di Cambridge e pubblicata su Plos Genetics, infatti, sarebbero i geni a stabilire chi sarà obeso e chi invece potrà mangiare fino a scoppiare senza ingrassare mai.

Lo studio ha scoperto che le persone magre avevano meno varianti genetiche note aumentare le probabilità di essere sovrappeso di una persona, identificando anche nuove regioni genetiche coinvolte nell’obesità grave e alcune coinvolte nella magrezza sana. Per arrivare a questa conclusione gli studiosi hanno confrontato il DNA di circa 14.000 persone: 1.662 parte dello studio Stilts (Study into lean and thin subjects) sulle persone magre, altre 1.985 gravemente obese e ulteriori 10.433 come gruppo di controllo di peso normale.

“Questa ricerca mostra per la prima volta che le persone sane e magre sono generalmente così perché hanno un carico inferiore di geni che aumentano le probabilità di sovrappeso e non perché siano moralmente superiori – affermaSadaf Farooqi, autrice principale dello studio – è facile affrettarsi a giudicare le persone per il peso, ma la scienza dimostra che le cose sono più complesse: abbiamo molto meno controllo sul peso di quanto potremmo speranzosamente pensare”. Tre persone su quattro (74%) tra le magre avevano una storia familiare di magrezza sana ed il team ha trovato alcuni cambiamenti genetici significativamente più comuni in loro.

“Sappiamo già che si può essere magri per motivi diversi – conclude Farooqi – alcuni non sono interessati al cibo, mentre altri possono mangiare quello che vogliono, ma non ingrassare. Se riusciamo a trovare i geni che impediscono di ingrassare, potremmo essere in grado di indirizzarli per trovare nuove strategie per aiutare chi non ha questo vantaggio”.

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Cibi ultra-lavorati, i rischi di un consumo eccessivo

Il Journal of American Medical Association (JAMA Internal Medicine) ha pubblicato una ricerca su un’ampia popolazione (più di 44mila persone) che mostra chiaramente come il maggior consumo di alimenti di produzione industriale ultra-lavorati sia associato a un aumento del rischio di mortalità per tutte le cause.

Più nello specifico, la ricerca, condotta su 44.551 adulti francesi di età pari o superiore a 45 anni, ha rilevato che un aumento del 10% della quota di alimenti ultra-lavorati nella dieta abituale è statisticamente associato a un rischio maggiore del 14% di mortalità per tutte le cause.

Che cosa si intende per alimenti ultra-lavorati? Per definirli questo studio utilizza una recente classificazione, chiamata NOVA, che divide gli alimenti in quattro gruppi, secondo il grado di lavorazione a cui vengono sottoposti prima di essere consumati.

Il quarto gruppo, quello degli alimenti ultra-lavorati comprende i cibi preparati con cotture o sistemi di conservazione distinti da quelli della cucina domestica e soprattutto con additivi diversi dai normali condimenti utilizzati in cucina, come, per esempio, esaltatori del sapore o sostanze che modificano il gusto.

I cibi ultra-lavorati, quindi, non sono solo piatti pronti o cibi precotti, hamburger e carni lavorate, ma anche cereali per la colazione, marmellate e numerosi altri prodotti presenti nello scaffale del supermercato.

Lo studio francese

Per verificare i possibili legami tra il consumo di cibi ultra-lavorati e aumento del rischio di mortalità per tutte le cause i ricercatori hanno selezionato una coorte di adulti con un’età media di 45 anni che partecipano allo studio NutriNet-Santé. Si tratta di una grande ricerca, lanciata nel 2009, basata sulla compilazione di questionari on line che documentano la dieta quotidiana. I dati sono poi completati con informazioni socio-demografiche, stile di vita, attività fisica, peso, altezza e altri dati antropometrici dei partecipanti. Per questo studio è stato selezionato un gruppo di persone che nel periodo tra il 2009 e il 2017 aveva completato on line un set di 3 questionari alimentari nelle 24 ore, per almeno due anni.

I ricercatori hanno valutato per ogni partecipante la proporzione (espressa in peso) degli alimenti ultra-lavorati presente nell’alimentazione. La mortalità è stata valutata utilizzando CépiDc, il registro nazionale francese delle cause specifiche di mortalità. Rapporti di rischio (HR) e IC al 95% sono stati determinati per la mortalità per tutte le cause, utilizzando modelli statistici.

Sul totale di 44.551 partecipanti, di cui 32.549 (73,1%) donne, con un’età media al basale di 56,7 anni (DS 7,5), gli alimenti ultra-lavorati rappresentavano una proporzione media del 14,4% (DS 7,6%) del peso del cibo totale consumato, corrispondente a una percentuale media del 29,1% (DS 10,9%) dell’apporto energetico totale.

Durante il follow-up si è verificato un totale di 602 decessi (1,4%). Dopo aggiustamento statistico per una serie di fattori confondenti, un aumento della percentuale di alimenti ultra-lavorati consumati è risultato associato a un più alto rischio di mortalità per tutte le cause (HR per incremento del 10%, 1,14, IC 95%, 1,04-1,27; P = 0,008 ).

I ricercatori concludono che: “un aumento del consumo di alimenti ultra-lavorati sembra essere associato a un rischio complessivo di mortalità più elevato in questa popolazione adulta; sono necessari ulteriori studi prospettici per confermare questi risultati e per chiarire i meccanismi attraverso i quali i cibi ultra-lavorati possono influire sulla salute.”

Il significato della ricerca

Questo significa che ogni volta che mettiamo una lasagna pronta nel microonde richiamo la vita? Evidentemente non è così e la necessità di evitare inutili allarmismi è sottolineata da diversi commentatori. In ogni caso, lo studio è un’importante conferma scientifica di quello che ormai fa parte di una buona educazione alimentare, ossia che le preparazioni industriali non devono prevalere sui cibi freschi e preparazioni semplici.

Non a caso, il profilo socio-demografico dei partecipanti mostra che un maggior consumo di cibi ultra-lavorati corrisponde all’età più giovane, reddito inferiore, livello di istruzione inferiore, BMI superiore e livello di attività fisica inferiore.

Si tratta quindi di conferme e indicazioni importanti per le raccomandazioni di salute e anche per le scelte dell’industria alimentare

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Italia un paese con sempre meno bambini: Mandorle e noci in aiuto alla fertilità maschile

Due porzioni al giorno (60 g) di frutta secca (noci, mandorle e nocciole) potrebbero aiutare gli uomini con problemi di fertilità. Il dato si riferisce ai risultati di uno studio americano presentato meeting della Società europea embriologia e riproduzione umana nel 2018.

Lo studio è stato finanziato dall’International Nut and Dried Fruit Council (INC), una fondazione che promuove le ricerche su noci e frutta secca, ed ha coinvolto 119 maschi in buona salute, di età compresa tra 18 e 35 anni, che sono stati divisi in due gruppi.

A un gruppo è stato chiesto di aggiungere alla normale dieta una combinazione di 15 grammi di mandorle, 15 grammi di nocciole e 30 grammi di noci al giorno per 12 settimane. L’altro gruppo ha seguito la sua abituale alimentazione. Al termine i partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad esami del sangue e dello sperma.

I risultati sono stati pubblicati sull’American Journal of Clinical Nutrition. I ricercatori hanno notato nello sperma del gruppo a cui è stata aggiunta la frutta secca un conteggio degli spermatozoi superiore del 16% un miglioramento del 6% della motilità degli spermatozoi, una vitalità degli spermatozoi superiore del 4% (la quantità di cellule spermatiche vive e sane trovate nello sperma) e un miglioramento dell’1% nella morfologia degli spermatozoi (che si riferisce alle normali dimensioni e forma delle cellule spermatiche).

Questo studio conferma i risultati di una precedente sulle sole noci (75 g al giorno per 12 settimane) che ha riscontrato miglioramenti nella vitalità, nella motilità e nella morfologia degli spermatozoi, ma non nel conteggio totale

Secondo i ricercatori questi effetti si possono attribuire ad alcune componenti specifici dei semi oleosi, come vitamina E, acidi grassi omega-3 e omega-6 e folato. Le mandorle inoltre sono ad alto contenuto di zinco, che contribuisce alla fertilità.

Errori alimentari insieme ad altri fattori ambientali sono considerati fra le possibile cause dell’aumento dell’infertilità maschile che caratterizza i paesi occidentali. Questo studio indica un possibile effetto favorevole della frutta secca, anche se va considerato che si tratta di una ricerca su un numero limitato di persone sane, senza apparenti problemi di fertilità

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Pressione arteriosa, valori più accurati con l’auto-misurazione domiciliare: una pratica da suggerire a tutti

– L’auto-misurazione domiciliare della pressione arteriosa è più accurata delle letture standard effettuate nello studio medico. A sostenerlo sono i risultati di una revisione sistematica e una meta-analisi pubblicati online sulla prestigiosa rivista scientifica Jama Internal Medicine.

I dispositivi oscillometrici automatici sono in grado di registrare automaticamente più letture della pressione sanguigna senza la necessità di avere un infermiere o un medico presente con il paziente. I medici negli Stati Uniti e in Europa sono stati più restii ad adottare l’auto-misurazione domiciliare nelle pratiche di routine ambulatoriali, mentre vi ricorre più del 50% dei medici canadesi di cure primarie.

La revisione degli studi

“L’automisurazione domiciliare praticamente elimina l’effetto camice bianco”, sottolinea Martin J. Myers del Sunnybrook Health Sciences Center e University of Toronto.

Il team di Myers ha utilizzato i dati di 31 articoli basati su un campione di 9279 pazienti per confrontare i risutalti dell’automisurazione domiciliare con le letture della pressione standard eseguite nella routine clinica e con la registrazione della pressione arteriosa ambulatoriale durante le ore di veglia. Le misurazioni della pressione arteriosa sistolica di routine nello studio medico erano in media di 13,4 mm Hg più alte rispetto alle misurazioni ambulatoriali nelle ore di veglia, e le misurazioni della pressione arteriosa diastolica erano in media più alte di 5,9 mm Hg.

Per quanto riguarda i valori della pressione sistolica nel “range” inferiore a 130 mm Hg, quella registrata in ambulatorio era in media di soli 5,4 mm Hg più alta rispetto a quella auto-misurata a domicilio, mentre nel “range” superiore a 130 mm Hg o superiore non vi era alcuna differenza significativa tra auto-misurazione domiciliare e ambulatoriale durante le ore di veglia.

“Per molti medici, può essere sorprendente che ci sia questa differenza tra la pressione sistolica automatica e di routine – osserva Jan Filipovsky della Charles University di Pilsen, Repubblica Ceca, che ha condotto uno degli studi inclusi nella meta-analisi – Questa differenza media è molto simile a quella che abbiamo riscontrato nei nostri studi. Il limite della pressione arteriosa sistolica per la diagnosi di ipertensione (secondo le linee guida europee) è 140 mm Hg, che corrisponde approssimativamente a 125 mm Hg quando viene utilizzata la misurazione automatica.

“Per il futuro – conclude – dovremmo ancora cercare un modo ideale per misurare la pressione arteriosa in clinica che riduca al minimo l’effetto del camice bianco, e permetta di prevedere meglio gli eventi cardiovascolari”.

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Praticare yoga regolarmente abbassa la pressione

Uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista “Mayo Clinic Proceedings” evidenzia come gli adulti che praticano yoga con esercizi di respirazione e rilassamento almeno tre volte a settimana abbiano una pressione arteriosa più bassa di quelli che non lo praticano.

In questa review, i ricercatori della Connecticut University, guidati da Yin Wu, hanno analizzato i dati provenienti da 49 studi clinici per un totale di 3.517 partecipanti. Generalmente, si trattava di uomini e donne sovrappeso, di mezza età e ipertesi.

Questi studi più piccoli hanno valutato la pressione arteriosa prima e dopo l’assegnazione a caso dei partecipanti a fare yoga o ad essere parte di un gruppo di controllo senza programmi di esercizio fisico.

Nel complesso, le persone nei gruppi yoga hanno avuto riduzioni medie della pressione sistolica superiori ai 5 mm HG rispetto a quelle nei gruppi di controllo, mentre la pressione diastolica con lo yoga si è ridotta di 3,9 mm Hg in più.

Quando i soggetti ipertesi hanno fatto yoga tre volte a settimana in sessioni che hanno incluso anche esercizi di respirazione e rilassamento, i loro valori medi sono calati di 11 mm Hg per quanto riguarda la pressione sistolica e di 6 mm Hg per quella diastolica.

“I nostri risultati non solo dimostrano che lo yoga può avere un’efficacia pari o superiore all’esercizio aerobico per abbassare la pressione, ma hanno anche quantitativamente evidenziato l’importanza di mettere in risalto le tecniche di respirazione yoga e quelle di rilassamento mentale/meditazione insieme alla parte fisica della pratica”, osserva Yin Wu, “Quindi, lo yoga, insieme ad altri interventi sullo stile di vita (come alimentazione e cessazione dell’abitudine del fumo), dovrebbe essere adottato subito anche quando la pressione è relativamente bassa e dovrebbe essere continuato insieme ai farmaci quando la pressione è relativamente elevata”.

Lo yoga è apparso meno benefico quando le persone che lo praticavano regolarmente non si concentravano su respirazione e rilassamento o meditazione. In queste circostanze, lo yoga è stato associato a riduzioni medie di 6 mm Hg in più nella pressione sistolica e di 3 mm Hg in più di quella diastolica rispetto ai gruppi che non hanno fatto attività fisica.

I partecipanti allo studio hanno iniziato con valori pressori medi di 129,3/80,7 mm Hg. Ciò indica che le riduzioni associate allo yoga potrebbero essere efficaci per portare alcune persone nei limiti normali.

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