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17 Luglio 2018 By Associazione Cuore Vivo

Dalla mela annurca al pesce: i cibi che curano …

Dagli omega 3 e 6 dell’olio di pesce per ridurre la pressione arteriosa e i trigliceridi, all’estratto di mela annurca contro il colesterolo alto, i nutraceutici – che differiscono dagli integratori – sono tanti. Si tratta infatti di sostanze a metà tra nutrienti ed i farmaci attualmente in uso, ad esempio, per coloro che non possono usare le medicine convenzionali. Lo spiegano in un’intervista Ettore Novellino e Antonello Santini dell’Università di Napoli Federico II, avvertendo però che servono sperimentazioni cliniche come per i farmaci per comprovarne l’efficacia e la loro sicurezza.

Recentemente è apparsa sul British Journal of Clinical Pharmacology una loro revisione sui principi nutraceutici, che esamina le potenzialità di queste sostanze, sottolineando la necessità di una corretta definizione di nutraceutici e di regole chiare per garantire la loro sicurezza.  Nello studio, innanzitutto, si spiega che i nutraceutici sono spesso confusi con gli integratori alimentari oggi molto in voga: “La principale differenza tra gli integratori alimentari e i nutraceutici – spiegano – è che, mentre i primi servono a supplementare l’organismo con micronutrienti (sali, vitamine, etc.) nel caso esista una loro carenza, i nutraceutici sono in grado di prevenire e agire con azione terapeutica in alcune malattie”. Ottenuti a partire da alimenti sotto forma di estratto concentrato, costituiscono un nuovo arsenale per la prevenzione e la terapia soprattutto nella fase iniziale di alcune malattie.

L’attenzione crescente verso i nutraceutici sta nel fatto che sono di origine naturale e la loro efficacia molto spesso è comparabile con quella dei farmaci convenzionali, ma che presentano minore rischio di effetti indesiderati per l’organismo.    Lo studio di nuovi nutraceutici e’ di grande interesse scientifico, e sono attualmente in corso molti studi e test clinici per verificarne la sicurezza e l’efficacia.

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17 Luglio 2018 By Associazione Cuore Vivo

Ictus, i fattori di rischio specifici delle donne

Negli Stati Uniti l’ictus è la terza causa di morte per le donne e una delle più importanti cause di invalidità. La prevalenza della malattia non è la stessa nei due sessi, in media ogni anno hanno un ictus 55mila donne in più rispetto agli uomini.

Partendo da questa premessa un aggiornamento appena uscito sulla rivista Stroke fa il punto sui fattori di rischio che riguardano specificamente le donne, in aggiunta a quelli condivisi con gli uomini, come ipertensione, diabete mellito, fumo, fibrillazione atriale.

Kathryn Rexrode, del Dipartimento di Medicina del Brigham and Women’s Hospital di Boston (Usa), ricorda che: “quando le donne invecchiano hanno molte più probabilità di avere un ictus come prima manifestazione di malattia cardiovascolare piuttosto che un infarto. Vogliamo capire meglio perché più donne hanno ictus rispetto agli uomini.“

Esaminando la letteratura disponibile sui fattori di rischio per l’ictus specifici per le donne, Rexrode e colleghi hanno concluso che i più significativi sono i seguenti:

  • menarca precoce (prima dei 10 anni)
  • menopausa precoce  (prima dei 45 anni)
  • bassi livelli di deidroepiandrosterone (DHEA)
  • assunzione di estrogeni orali o contraccettivi orali combinati

Inoltre, le donne che hanno avuto una storia di complicazioni legate alla gravidanza, come il diabete gestazionale, l’ipertensione durante o appena dopo la gravidanza e la preeclampsia, hanno un rischio maggiore ictus. Altri fattori che, secondo il team, necessitano di ulteriori indagini includono l’assunzione dell’estrogeno transdermico o la contraccezione solo progestinica.

https://medicoepaziente.it/wp-content/uploads/2018/02/tabella_donne2-447x400.jpg

 

In conclusione gli autori sottolineano che le condizioni indicate come fattori di rischio unici per le donne sono molto comuni e quindi l’incidenza della malattia sulla popolazione con queste caratteristiche è bassa. Lo scopo dello studio è semplicemnente quello di richiamare l’attenzione della classe medica e delle donne stesse su questi specifici fattori.

“Queste donne – conclude Rexrode – devono essere monitorate attentamente e devono essere consapevoli che sono a rischio più elevato e motivate ad aderire a stili di vita più sani per ridurre il rischio di ipertensione e ictus.”

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17 Luglio 2018 By Associazione Cuore Vivo

Arteriopatie periferiche, efficaci le statine

Sembra proprio che le statine migliorino i risultati nella malattia delle arterie periferiche. Infatti, secondo i dati del Veterans Health Administration, l’uso di statine è associato a più bassi tassi di amputazione e mortalità nei pazienti con malattia delle arterie periferiche (PAD).  La PAD colpisce fino a 12 milioni di persone negli Stati Uniti ed è causa annualmente 148.000 amputazioni importanti, ed oltre 1 milione in Italia. Ci sono prove limitate, tuttavia, sull’impatto della riduzione del colesterolo nel sangue sugli esiti dell’arteriopatia periferica.
Partendo da questa considerazione, alcuni ricercatori della Emory University School of Medicine di Atlanta, in Georgia, hanno utilizzato dati di 155.647 veterani (98% maschi) affetti da PAD per studiare l’impatto della terapia con statine e l’influenza sui risultati della PAD rispetto ad amputazione e mortalità. Al momento della diagnosi di PAD, il 38,8% dei pazienti era in trattamento con statine a dosaggio moderato e il 12,4% era in trattamento con statine ad alto dosaggio, mentre il 28,0% non aveva assunto alcuna statina.
A circa il 42% dei pazienti affetti da sola PAD non sono state prescritte statine, rispetto al 35% di quelli che avevano una diagnosi concomitante di stenosi dell’arteria carotidea, al 18% di quelli con una diagnosi concomitante di malattia coronarica e al 16% di quelli diagnosticati con tutte e tre le patologie. Dopo aggiustamento per età e altri potenziali fattori confondenti, le statine di bassa o moderata intensità sono state associate a una riduzione del 17% della mortalità e ad una riduzione del 24% del rischio di amputazione. Le statine ad alta intensità sono state associate a una riduzione del 30% del rischio di mortalità e una riduzione del 39% del rischio di amputazione.
Le conclusioni
“Dopo la diagnosi di PAD, un paziente dovrebbe iniziare una terapia con statine al più alto dosaggio che possa essere tollerato, proprio come si fa per la malattia coronarica (CAD), per ridurre il rischio di amputazione e morte per tutta la vita”, osservano gli autori dello studio. “È necessario porre tutta l’attenzione possibile sulla diagnosi precoce e sul trattamento della malattia arteriosa periferica, in particolare in assenza di malattia cardiovascolare (CAD), e questo da parte di tutti gli operatori sanitari, compresi i medici di base, i cardiologi e gli specialisti vascolari”

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17 Luglio 2018 By Associazione Cuore Vivo

Dottore, posso bere il caffè?

Quante volte ci siamo posti il problema:  … ho qualche problemino di cuore, ma posso bere il caffè?

Particolare attenzione per la valutazione degli effetti del caffè è stata rivolta alla caffeina ivi contenuta, ma presente anche nel tè, nel cacao e aggiunta ad alcune bibite:in Italia una tazzina di espresso (circa 35 ml) fornisce 50 mg di caffeina, mentre una tazzina di moka (50 ml) ne fornisce circa 120 mg. Ne deriva che: il caffè del bar contiene meno caffeina del caffè di casa; il caffè “lungo” contiene in genere più caffeina di un caffè ristretto1.

In una tazza di caffè americano di 200 ml sono presenti 90 mg di caffeina, (ma tanto da noi non si beve!). Occorre però rilevare che nel chicco di caffè non trattato sono presenti 900 sostanze diverse: proteine, lipidi, carboidrati (solubili e insolubili), minerali, vitamine, polifenoli. La tostatura, più o meno accentuata, è decisiva per l’aroma e comporta la perdita per denaturazione di gran parte delle proteine, ma anche l’aumento della concentrazione di sostanze definite per brevità antiossidanti, attraverso la formazione di un fitocomplesso.

Numerose ricerche sono state condotte riguardo l’incidenza sulla salute umana di diverse quantità e tipi di caffè, sia con studi osservazionali che con studi randomizzati di intervento.

Suscita perciò interesse la pubblicazione recente su un’importante rivista internazionale il BMJ di una revisione sul tema compiuta su 219 studi che hanno esaminato le associazioni tra il consumo di caffè e qualsiasi risultato sulla salute in ogni popolazione adulta in tutti i Paesi ed in tutti i tipi di pazienti.

Il consumo di caffè era più spesso associato al beneficio che al danno in termini di risultati di salute; le stime riassuntive indicano che la maggiore riduzione del rischio era presente con assunzioni da tre a quattro tazze al giorno rispetto a nessuna, comprese tutte le cause di mortalità totale, mortalità cardiovascolare e malattia cardiovascolare. Inoltre un consumo elevato di caffè è stato associato, rispetto al basso consumo, a un rischio inferiore del 18% di cancro incidente.

Il consumo era anche associato a minor rischio di diversi tumori specifici e a patologie neurologiche, metaboliche ed epatiche. Associazioni nocive sono state in gran parte annullate togliendo dall’analisi il fumo come fattore confondente, tranne che in gravidanza, dove il consumo elevato di caffè contro consumo basso / nessun consumo è stato associato al basso peso al momento del parto (rapporto di probabilità 1,31), nascita pre-termine e perdita della gravidanza. E’ stata evidenziata anche un’associazione tra bere il caffè e il rischio di frattura nelle donne, ma non negli uomini.

Gli autori di questa imponente rassegna comunque sottolineano la necessità di ulteriori studi randomizzati per capire se le associazioni osservate sono causali, ma, fatte salve le condizioni sopraccitate, si può non solo permettere, ma anche consigliare di bere il caffè.

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17 Luglio 2018 By Associazione Cuore Vivo

Niente da fare, essere obesi fa male!

Paradosso dell’obesità nella malattia di cuore confutato da una nuova analisi!
Una nuova analisi dei dati di follow-up a lungo termine di 10 coorti di popolazione mette in discussione il cosiddetto paradosso dell’obesità, derivante da analisi di popolazione che hanno suggerito, per i malati di cuore, una mortalità minore se sovrappeso o obesi.

Questi studi includevano pazienti che avevano già malattia cardiovascolare al momento dello studio,  e la cosa potrebbe aver introdotto molti bias: i pazienti obesi possono avere una diagnosi di malattia cardiaca prima di altri e quindi potrebbe sembrare che vivano con una malattia cardiaca per un tempo più lungo.

Il nuovo studio ha analizzato i dati a livello individuale da 190.672 esami di pazienti in 10 grandi coorti prospettiche con un totale di 3,2 milioni di anni di follow-up. Tutti i partecipanti non avevano malattia cardiovascolare  al basale e esisteva documentazione su altezza e peso per valutare il BMI.

I risultati hanno dimostrato che rispetto ai soggetti con un BMI normale (definito come un BMI tra 18,5 e 24,9), il rischio di evento cardiovascolare era più alto nelle persone in sovrappeso (BMI, 25.0 a 29.9) e obese (BMI, 30.0 a 39.9).

Rispetto al gruppo di peso nella norma, gli uomini di mezza età in sovrappeso presentavano un rapporto di rischio 1,21, le donne di 1,32 mentre gli uomini obesi avevano un rischio di 1,67 e le donne di 1,85, rischio che impenna negli uomini e nelle donne con obesità morbigena (3,14 e 2,53, rispettivamente).

I ricercatori hanno trovato una associazione più forte tra categorie di BMI e insufficienza cardiaca (HF) rispetto ad altri sottotipi di malattia di cuore, con un aumento di cinque volte maggiore in uomini di mezza età con obesità patologica.

In termini di durata della vita, essere normopeso allunga la vita di 1,9 anni rispetto agli uomini obesi e di 6 anni rispetto ai superobesi. Risultati simili anche per le donne.

Se le persone obese vivono vite più brevi, le persone in sovrappeso hanno una durata della vita simile a quelle di peso normale, ma hanno sviluppato malattie cardiovascolari prima delle persone con BMI normale.

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