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7 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Le statine sono efficaci e sicure anche per gli anziani

Le statine riducono il rischio cardiovascolare, senza aumento del rischio di mortalità per altre cause, anche nella popolazione anziana (>75 anni). È il risultato di una metanalisi, pubblicata recentemente su Lancet che ha considerato 28 trial randomizzati e controllati, con 186.854 pazienti, di cui 14.483 di età superiore ai 75 anni.

I risultati di questo studio dicono che, indipendentemente dall’età, le statine riducono il rischio di eventi vascolari maggiori di circa un quinto per 1 mmol/L di colesterolo LDL in meno. Per gli eventi coronarici maggiori la riduzione complessiva è di circa un quarto per 1 mmol/L di riduzione complessiva. La riduzione del rischio coronarico varia nelle diverse fasce d’età (circa il 30% per i soggetti <55 anni,  circa il 20% per i soggetti> 75 anni), mentre la riduzione del rischio relativo per l’ictus e per la rivascolarizzazione coronarica (stent coronarico o bypass) è simile in tutte le fasce d’età. Lo studio inoltre non mostra un aumento del rischio di mortalità per cause non cardiovascolari o di insorgenza di tumore in qualsiasi fascia di età.

I ricercatori hanno notato risultati  differenti in quattro studi condotti esclusivamente in pazienti con scompenso cardiaco o dialisi renale. Le statine non hanno dimostrato di essere efficaci in queste persone e non sono raccomandate per loro. Quando questi partecipanti sono stati esclusi, riduzioni simili del rischio sono state osservate in tutte le fasce di età, per i principali eventi CV e per la mortalità cardiovascolare. È stata mantenuta una riduzione leggermente inferiore del rischio di eventi coronarici maggiori con l’aumentare dell’età.

La ricerca ha anche esaminato gli effetti delle statine in soggetti senza malattie CV precedenti (prevenzione primaria) e in soggetti con una storia di malattia CV (prevenzione secondaria).  Nell’ambito della prevenzione secondaria, i ricercatori hanno riscontrato riduzioni proporzionali del rischio simili in tutte le fasce d’età, il che equivarrebbe a un maggiore beneficio assoluto nelle persone anziane. Nel setting di prevenzione primaria i risultati erano simili, ma poiché c’erano meno partecipanti anziani le conclusioni sono meno sicure. Più prove da studi randomizzati in persone anziane senza precedenti malattie CV saranno utili e gli studi sono in corso.

In un commento allo studio Bernard MY Cheung del Queen Mary Hospital dell’Università di Hong Kong afferma: “Anche se la riduzione del rischio nelle persone di età superiore ai 75 anni è inferiore al previsto, la terapia con statine può essere giustificata da un alto rischio cardiovascolare, che di solito è presente nelle persone anziane. Questa meta-analisi indica l’opportunità di ridurre il colesterolo LDL nelle persone a rischio di eventi cardiovascolari indipendentemente dall’età, a condizione che i benefici superino i rischi e il paziente accetti un trattamento a lungo termine. “

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7 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

La dieta che salva il pianeta Terra e i suoi abitanti

Ridurre del 50% entro il 2050 il consumo globale di carne rossa e zuccheri e raddoppiare quello di frutta, verdura, noci e legumi. Questa, in estrema sintesi, contenuta nel rapporto “Food planet Health” presentato dalla EAT-Lancet Commission, un organismo di 37 esperti provenienti da 16 paesi, con competenze in materia di salute, nutrizione, sostenibilità ambientale, sistemi alimentari, economia. Il lavoro, durato due anni, valuta gli effetti che avrebbe sull’ambinete e sulla salute umana un cambiamento delle abitudini alimentari a livello planetario.

Secondo il rapporto, pubblicato su Lancet, intervenire sui consumi e la produzione di alimenti è urgente e necessario per almeno tre motivi: tre miliardi di persone hanno problemi di malnutrizione (sono sottonutriti o sovralimentati), il sistema di produzione e consumi di alimenti, destinato a crescere con il miglioramento delle condizioni economiche dei paesi in via di sviluppo, genera inquinamento ambientale e contribuisce al riscaldamento globale.

Riequilibrare le abitudini alimentari a livello globale porterebbe a benefici sostanziale per la salute pubblica e per la biosfera.

Nutrirsi bene e con una produzione sostenibile

Come garantire il giusto apporto calorico ai 10 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050 in modo compatibile con le risorse disponibili? La commissione ha definito un modello di  menu sostenibile, che prevede l’apporto di 2500 kcal al giorno (per un invididuo di circa 30 anni e del peso di 70 kg) senza danni per la salute e l’ambiente.

 

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fonte: “Healthy Diets From Sustainable Food Systems – Food Planet Health”, EAT Lancet Commission Summary Report – gennaio 2019, mod.

“Una dieta sana – ricorda uno dei direttori della Commissione, Walter Willettdell’Università di Harvard (USA) – deve avere un apporto calorico adeguato, fornito da una varietà di alimenti a base vegetale, basse quantità di alimenti a base animale, più grassi insaturi che grassi saturi e una quantità modesta di cereali raffinati, di cibi altamente trasformati e di zuccheri aggiunti. I modelli alimentari che suggeriamo sono compatitbili con diversi sistemi agricoli, tradizioni culturali e preferenze alimentari individuali, tra cui le diete onnivore, vegetariane e vegane. ”

Sulla base di di tre diversi sistemi di monitoraggio globale del rischio (Comparative Risk, Global Burden of Disease e Global Risk) la commissione ha stimato che un riequilibrio dei consumi alimentari potrebbe evitare ogni anno circa 11 milioni di morti riducendo le morti premature in una percentuale che va dal 19 al 23,6%.

Gli effetti sull’ambiente

«La produzione alimentare è la più grande causa del cambiamento ambientale globale. L’agricoltura occupa circa il 40% della terra, e le produzioni di cibo sono responsabili
di una percentuale che vale fino al 30% delle emissioni di gas a effetto serra sul pianeta e fino al 70% del consumo di acqua dolce».

Lo scenario che abbiamo di fronte impone di conciliare l’aumento della produzione di alimenti, necessario per soddisfare le crescenti richieste alimentari della popolazione mondiale con modelli produttivi che limitino il l’uso di terra e acqua, evitino la perdita di perdita di biodiversità e tengano conto anche delle emissioni in grado di modificare l’ambiente.

«La produzione alimentare – scrive infatti la EAT-Lancet Commission – è una fonte primaria di metano e ossido nitroso, che hanno rispettivamente 56 volte e 280 volte il potenziale di riscaldamento globale (in 20 anni) dell’anidride carbonica. Il metano viene prodotto durante la digestione in ruminanti, quali mucche e pecore, o durante la decomposizione anaerobica del materiale organico in risaie allagate. Il protossido di azoto deriva principalmente dai microbi del suolo nei campi coltivati e pascoli, ed è influenzata dalla gestione della fertilità del suolo, come l’applicazione di fertilizzanti».

https://medicoepaziente.it/wp-content/uploads/2019/01/Tabella_effetti.jpg

fonte: “Healthy Diets From Sustainable Food Systems – Food Planet Health”, EAT Lancet Commission Summary Report – gennaio 2019, mod.

Il rapporto della EAT-Lancet Commission mostra che un intervento sui modelli di consumo alimentare è in grado di modificare in modo sostanziale un trend che sta alzando il rischio ambientale. Per quanto riguarda la salute è sufficiente considerare il dato sulla denutrizione (815 milioni di persone denutrite nel mondo) affiancato a quello sull’obesità, che è triplicato dal 1975 e oggi fa registrare 1,9 miliardi di persone in sovrappeso, con più di 650 milioni di obesi

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22 Gennaio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Poca attività fisica? Attenti all’eccesso di fosfati

La sedentarietà, ossia uno stile di vita che comprende una quantità di esercizio fisico insufficiente, è considerato uno dei principali fattori di rischio, nelle popolazioni occidentali, per lo sviluppo delle sindromi metaboliche e delle malattie cardiovascolari. Lo scarso movimento è spesso connesso con il tipo di lavoro che facciamo e con le nostre abitudini di vita, ma potrebbe avere anche un legame anche con le scelte alimentari.

Proprio questa indicazione viene da un nuovo studio americano, condotto su animali da laboratorio e su un campione di popolazione sana, che mette in luce un possibile rapporto tra un consumo eccessivo di fosfati inorganici e la sedentarietà.

I fosfati inorganici sono additivi comunemente utilizzati per conservare e dare sapore a diversi alimenti, molto diffusi nella dieta occidentale, come le carni lavorate (wurstel, salsicce e prosciutto), cibi pronti surgelati, bevande a base di cola e molti altri. I fosfati sono derivati dal fosforo, un minerale che svolge funzioni essenziali nel nostro organismo per la formazione delle ossa, per la trasmissione degli impulsi nervosi e la contrazione dei muscoli.

La quantità di fosforo nel sangue è regolata dai reni, ma un eccesso di fosfati assunti con la dieta, può creare difficoltà all’organismo, per questo i fosfati aggiunti sono tenuti sotto osservazione e secondo diversi esperti dovrebbero essere quantificati meglio nelle etichette degli alimenti. Diversi studi hanno evidenziato un legame fra un consumo eccessivo di fosfati aggiunti e un maggior rischio di eventi cardiovascolari soprattutto in soggetti con problemi renali, ma anche nella popolazione generale.

Si stima che tra il 40% e il 70% dei prodotti alimentari più venduti negli Usa contengano fosfati inorganici. Di conseguenza il 25% degli adulti statunitensi assume nella dieta quotidiana una quantità di fosfati da 3 a 4 volte superiore a quella raccomandata.

I ricercatori del Southwestern Medical Center, Università del Texas, Dallas (Usa) si sono proposti di valutare gli effetti dei fosfati inorganici sull’apparato muscolo-scheletrico.

Nella prima fase dello studio due gruppi di topi sono stati sottoposti a una dieta con un tasso di fosfati normale (0,6%) e alto (2,0%). Dopo 12 settimane i roditori che avevano seguito una dieta arricchita di fosfati avevano una minore capacità di esercizio fisico (meno tempo sul tapis roulant e minore fitness cardiaco) rispetto a quelli che avevano seguito una dieta normale. Inoltre, in questi topi risultava una minore capacità di bruciare i grassi per via metabolica. Ulteriori analisi hanno rilevato alterazioni in 5.000 geni implicati nel metabolismo cellulare legato al funzionamento dei muscoli.

Nella seconda parte dello studio, pubblicato sulla rivista Circulation, il team guidato da Wampen Vongpatanasin, del dipartimento di Medicina Interna del Southwestern Medical Center, ha monitorato 1.600 persone sane, confrontando i livelli di fosforo nel sangue con l’attività fisica quotidiana, rilevata con un contapassi nell’arco di 7 giorni. Livelli più elevati di fosfati nel sangue correlavano con abitudini più sedentarie e meno tempo “speso in attività fisica da moderata a vigorosa”.

“I nostri dati  – concludono gli autori – dimostrano che un eccesso di fosfati aggiunti nella dieta ha un effetto deterrente sul metabolismo degli acidi grassi del muscolo scheletrico e sulla capacità di esercizio, indipendentemente dall’obesità e dalla funzionalità cardiaca. Il fosforo inorganico presente nei cibi potrebbe rappresentare un nuovo fattore di rischio modificabile per l’inattività fisica.”

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22 Gennaio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Cuore: il basso reddito è un fattore di rischio fra i giovani adulti

In uno studio pubblicato sull’autorevole rivista scientifica americana “Circulation”, si dimostra che una forte ed improvvisa diminuzione del reddito è legata a un aumento della mortalità cardiaca tra i giovani adulti.

chi in questa fascia di età ha sperimentato più di due contrazioni degli introiti ha fatto registrare più del doppio del rischio di sviluppare malattie cardiache e quasi il doppio del rischio di morire presto, rispetto alla controparte con un reddito più stabile.

“Generalmente gli studi che valutano l’associazione tra reddito e morte sono strutturati su popolazioni più anziane – osserva l’autore principale, Tali Elfassy della University of Miami – Noi abbiamo esaminato adulti che avevano 23-35 anni all’inizio del nostro studio”.

Elfassy e colleghi hanno analizzato i dati dello studio Cardia (Coronary Artery Risk Development in Young Adults) che sta monitorando 3.937 persone provenienti da quattro città americane: Birmingham, Minneapolis, Chicago e Oakland.

Al momento della partenza di Cardia, nel 1990, i volontari avevano tutti tra i 23 e i 35 anni. Il loro stato di salute è stato controllato ogni sei mesi, e sono stati intervistati sul reddito cinque volte tra il 1990 e il 2005.

In questo arco di tempo, le persone che avevano subito un maggior numero di riduzioni del reddito hanno mostrato un rischio più alto di oltre due volte e mezzo di sviluppare malattie cardiovascolari e una probabilità maggiore del 92% di morire rispetto a chi aveva stipendi stabili.

Chi aveva perso oltre 20.000 dollari ha fatto registrare una probabilità di sviluppare malattie cardiovascolari superiore di quasi quattro volte alla controparte e probabilità di morire prematuramente più che raddoppiate.

I commenti
Il legame tra il calo dei salari e le malattie cardiache potrebbe essere dovuto allo stress, osserva James Glazier, cardiologo all’Harper University Hospital del Detroit Medical Center: “Non è la prima volta che viene stabilita una connessione tra reddito e salute. Gli studi Whitehall, diversi decenni fa, hanno rilevato che le malattie cardiache erano più diffuse nei dipendenti pubblici a basso reddito rispetto a quelli con redditi più alti”.

“Inoltre- continua Glazier – studi recenti condotti su broker di borsa dimostrano che quando c’è volatilità del mercato, la pressione sanguigna aumenta. Lo stress cronico può ferire il cuore e sappiamo che lo stress emotivo, come la perdita di un coniuge, può portare a problemi cardiaci. A questo effetto è stato dato un nome, sindrome del cuore spezzato o cardiomiopatia di Takatsubo”.

Più semplicisticamente possiamo ricordare che … i soldi non fanno la felicità ma certamente vi contribuiscono largamente, anche in termini di salute!

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22 Gennaio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Cuore e diabete, la dieta mediterranea non si batte

Numero uno nel mondo. E’ la dieta mediterranea. Non c’è chetogenica, DASH, flexitariana che tenga, la mediterranea le batte tutte e si guadagna il primo gradino del podio in uno studio condotto dal sito statunitense US News & World Report, specializzato nella redazione di classifiche e consigli per i consumatori.

“E’ sentire comune che le persone che vivono nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo vivono meglio e si ammalano meno di tumore e di problemi cardiovascolari della maggior parte degli americani. Il ‘non sorprendente segreto’ è in uno stile di vita attivo, nel controllo del peso e in una dieta povera di carni rosse, zuccheri e grassi saturi e ricca di frutta e verdura, frutta secca e cibi salutari”, si legge sul sito.

Il nuovo riconoscimento rappresenta, sottolinea la Coldiretti, una risposta ai bollini allarmistici che alcuni Paesi stanno applicando su diversi alimenti della dieta mediterranea sulla base dei contenuti in grassi, zuccheri o sale. “Un marchio infamante che favorisce i prodotti artificiali e colpisce già oggi ingiustamente le confezioni di olio extravergine Made in Italy, il prodotto simbolo della dieta mediterranea” che, precisa l’organizzazione agricola, “ha vinto la sfida tra 41 diversi regimi alimentari alternativi con un punteggio di 4,2 su 5 grazie agli effetti positivi sulla longevità e ai benefici per la salute, tra cui perdita e controllo del peso, salute del cuore e del sistema nervoso, prevenzione del cancro e delle malattie croniche, prevenzione e controllo del diabete”.

Al secondo posto della classifica la dieta DASH (Dietary Approaches to Stop Hypertension), molto in voga negli Usa, basata sull’aumento del consumo di potassio, calcio, fibre e proteine con invece un minimo utilizzo del sale da cucina.

Sul terzo gradino, la flexitariana, adottata da molte celebrità e basata su una dieta di fondo vegetariana ma, appunto, flessibile: prevede infatti un consumo anche se contenuto e misurato di proteine animali: “puoi essere vegetariano per la maggior parte del tempo, ma farti un hamburger o una bistecca quando il bisogno preme”, spiega il sito statunitense. Ma nessuna delle due guida alcuna delle sette sottocategorie di cui si compone il sondaggio, che vanno dagli effetti positivi su cuore e diabete, alla capacità di far perdere peso, fino alla facilità di preparazione.

E anche “se non c’è ‘una’ dieta mediterranea, perché i greci mangiano diversamente dagli italiani, che mangiano diversamente da francesi e spagnoli”, seguendo i dettami di questo regime alimentare “puoi anche tenere il peso a bada evitando malattie croniche

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