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25 Ottobre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Confermata la valenza del monitoraggio pressorio domiciliare

Il monitoraggio domestico della pressione migliora il controllo pressorio e consente risparmi economici, come evidenziato da uno studio condotto su 2.550 soggetti da Roy Champion Jr. della Scott and White Health Plan di Temple, secondo cui questa strategia non è soltanto una pratica ottimale basata sulle evidenze, ma rappresenta anche un metodo conveniente per ottenere un’assistenza sanitaria di qualità elevata.

Nello studio i partecipanti hanno ricevuto, oltre agli strumenti per il monitoraggio, anche risorse online e di stampa per tenere traccia delle letture, nonché richiami per ricordarsi di effettuarle, per un costo complessivo medio di 38,5 dollari USA, meno di 35 Euro.

Il monitoraggio pressorio domiciliare rappresenta una raccomandazione grado A (ovvero molto importante), e diverse organizzazioni scientifiche di grande rilevanza, fra cui l’American Heart Association, lo raccomandano per la diagnosi ed il trattamento dell’ipertensione, ma spesso non è parte della routine assistenziale dei pazienti ipertesi, pertanto questa metodica andrebbe consigliata a tutti gli Ipertesi, che in Italia sono circa 7 milioni di persone. (American Heart Association, 2018 Scientific Sessions)

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6 Settembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

LUNGA VITA CON POCHI CARBOIDRATI …

Una nuova ricerca pubblicata sul Lancet suggerisce che la assunzione di carboidrati“ottimale”, analizzando diete basate sul consumo molto alto e molto basso incarboidrati, si colloca da qualche parte di mezzo, per migliorare la salute a lungo termine per la maggior parte delle persone.

I dati sono quelli di uno studio osservazionale su 15.428 persone (ARIC Study): il consumo di carboidrati moderato è associato al più basso rischio di mortalità.

Inoltre, una meta-analisi degli studi sull’assunzione di carboidrati, che gli investigatori hanno aggiornato con questa e altre ricerche recenti, conferma la relazione a forma di U.

Mentre le diete a basso contenuto di carboidrati che si basano su proteine ​​e grassidi origine animale sono legate a un rischio di mortalità più elevato rispetto alle diete con moderata assunzione di carboidrati, quelle a basso contenuto di carboidratiche consistono di proteine ​​soprattutto di origine vegetale e grassi sono associate a longevità.

Con un follow-up mediano di 25 anni, ci sono stati 6283 decessi: il più alto rischio di mortalità è stato osservato nei partecipanti con il più basso consumo di carboidrati ed in quelli con un’assunzione alta di carboidrati tra il 50% e il 55%.

I ricercatori hanno ampliato la meta-analisi per includere, nello studio corrente, due ulteriori studi. In totale, la meta-analisi ha coinvolto 432.179 partecipanti di otto studi di coorte che hanno studiato l’assunzione di carboidrati, con 40.181 decessi.

Come nello studio ARIC, rispetto al consumo di carboidrati moderato, il rischio di mortalità nella popolazione era significativamente maggiore tra i partecipanti con basso consumo di carboidrati, definito come meno del 40% del consumo dienergia, e in quelli con alto consumo di carboidrati, come definito più del 70% dell’apporto energetico, confermando la curva a U.

La metanalisi ha anche permesso di discriminare la fonte di proteine e grassi dimostrando che, se da fonti vegetali, un più alto consumo di proteine e grassi (e quindi un minor consumo percentuale di carboidrati) si associa a longevità.

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4 Settembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

le nuove linee guida cambiano l’approccio al paziente iperteso

“Abbiamo trattamenti efficaci e, teoricamente, il 90-95% dei pazienti dovrebbe avere la pressione sanguigna sotto controllo, ma in realtà solo il 15-20% raggiunge i livelli consigliati. Le linee guida 2018 puntano a migliorare questi bassi tassi di controllo della pressione arteriosa introducendo una strategia di trattamento semplice e più facile da seguire.”

Così Giuseppe Mancia, presidente della Fondazione della Società Europea dell’Ipertensione (ESH) e portavoce della task force che ha elaborato il nuovo documento, sintetizza gli obiettivi delle nuove linee guida sull’ipertensionepresentate al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC 2018), in corso a Monaco di Baviera.

La presentazione delle nuove linee guida sull’ipertensione è stato uno degli eventi più seguiti di questo grande appuntamento internazionale. L’approccio all’ipertensione, infatti, è uno dei grandi temi della medicina e delle politiche sanitarie in tutto il mondo.

Si calcola che a livello planetario più di un miliardo di persone abbia livelli pressori troppo alti, che costituiscono un fattore di rischio per insufficienza cardiaca, fibrillazione atriale, malattia renale cronica, arteriopatie periferiche e declino cognitivo.

L’ipertensione arteriosa colpisce fino al 60% delle persone di età superiore ai 60 anni ed è la principale causa globale di morte prematura, con circa 10 milioni di morti nel 2015, di cui 4,9 milioni dovuti a cardiopatia ischemica e 3,5 milioni a causa di ictus.

La principale novità delle nuove linee guida riguarda il primo approccio terapeutico al paziente iperteso. A differenza dell’edizione precedente, che consigliava di partire con un farmaco a cui aggiungere un secondo in caso di insuccesso, ora si raccomanda una terapia iniziale con due farmaci in una singola pillola, per facilitare la “compliance” del paziente.

Alla base di questa nuova strategia c’è la cosiddetta “inerzia del medico”, ossia la ridotta propensione ad aggiornare la terapia anche se poco efficace, a cui si aggiunge la scarsa aderenza terapeutica dei pazienti, che faticano ad assumere più medicinali, il risultato è un trattamento che non raggiunge gli obiettivi nell’80% dei casi.

Una pillola che contiene due o, se necessario, tre farmaci, secondo gli estensori delle nuove linee guida, potrebbe “trasformare i tassi di controllo della pressione sanguigna”.

Le nuove linee guida sull’ipertensione rivedono anche le soglie di trattamento, raccomandando l’uso di farmaci anche in pazienti che finora venivano solo invitati a cambiare stile di vita, ossia quelli con ipertensione di grado I° medio-basso (140-159/90-99 mm Hg), con pressione arteriosa normale alta (130-139/85-89 mm Hg).
Un’altra importante novità i target di pressione per i pazienti di tutte le età, che in questa nuova edizione sono inferiori rispetto alle linee guida precedenti. Gli obiettivi di pressione sistolica sono ora 120-129 mm Hg per i pazienti sotto i 65 anni di età e 130-139 mm Hg per i pazienti di età superiore ai 65 anni, tenendo conto della tollerabilità del trattamento, del grado di indipendenza e della fragilità dei pazienti e delle co-morbilità.

Una pressione sanguigna inferiore a 120 mm Hg viene invece sconsigliata per qualsiasi paziente, poiché il rischio di danno supera i potenziali benefici.

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4 Settembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Ipertensione, dopo la mezza età il test dell’orologio dovrebbe essere di routine

Il test dell’orologio (clock drawing test), uno dei più comuni esami utilizzati per rilevare il deterioramento delle funzioni cognitive, dovrebbe essere somministrato di routine ai pazienti ipertesi, soprattutto dopo la mezza età, per identificare i soggetti a rischio di demenza.

È la conclusione a cui sono giunti gli autori di una ricerca presentata al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC 2018) in corso a Monaco di Baviera, che ha valutato l’utilità del test del disegno dell’orologio rispetto al Mini-Mental State Examination (MMSE) in 1.414 adulti con alta pressione sanguigna (in media 144/84 mmHg), reclutati da 18 centri di cardiologia in Argentina. L’età media dei pazienti era di 60 anni e il 62% erano donne.

Nel test dell’orologio il paziente viene invitato a riempire con i numeri delle ore un cerchio di circa 10 centimetri e a disegnare le lancette in modo che indichino le quattro meno venti. Il disegno permette di diagnosticare una compromissione moderata o severa delle funzioni cognitive.

https://medicoepaziente.it/wp-content/uploads/2018/08/ClocK_test.jpg

Con il MMSE invece si valutano le risposte a 11 domande a cui viene assegnato un punteggio, in base al quale si può stabilire la presenza di un declino cognitivo di grado moderato o severo.

Nella ricerca presentata all’ESC 2018 il test dell’orologio è stato in grado di rilevare una prevalenza maggiore di casi di disfunzioni cognitive, il 36%, contro il 21% rilevato con il MMSE.

“Il nostro studio – ha detto Augusto Vicario dell’Heart and Brain Unit, Cardiovascular Institute di Buenos Aires (Argentina) – suggerisce che il test del disegno dell’orologio dovrebbe essere preferito al MMSE per la diagnosi precoce della disfunzione esecutiva nei pazienti con pressione alta, in particolare nella mezza età. Pensiamo che il punteggio sul test del disegno dell’orologio possa essere considerato una misura surrogata del danno vascolare silente nel cervello e identifica i pazienti a maggior rischio di sviluppare demenza.”

Vicario ricorda che : “l’ipertensione non trattata, silenziosamente e progressivamente danneggia le arterie nella subcorteccia del cervello e interrompe la comunicazione tra la subcorteccia e il lobo frontale. Questa disconnessione porta a “funzioni esecutive” compromesse come la pianificazione, le capacità visuospaziali, il ricordo dei dettagli e il processo decisionale. Il test del disegno dell’orologio è noto per valutare le funzioni esecutive. L’MMSE valuta diverse altre abilità cognitive, ma è debolmente correlato con le funzioni esecutive. ”

“Il test del disegno dell’orologio – conclude Vicario – dovrebbe essere adottato come strumento di screening di routine per il declino cognitivo in pazienti con pressione alta. Sono necessari ulteriori studi per determinare se l’abbassamento della pressione arteriosa può prevenire la progressione verso la demenza.

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4 Settembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

il colesterolo HDL (Buono) in eccesso aumenta il rischio di infarto

Un eccesso di lipoproteine ad alta densità (HDL) quello comunemente definito come buono, può essere associato a un aumento del rischio di infarto miocardico e di morte. Lo dimostra una ricerca presentata al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC 2018), che si è concluso oggi a Monaco di Baviera.

Un dato che potrebbe indurre a riconsiderare la definizione di colesterolo “buono” generalmente attribuita al colesterolo HDL.

“Potrebbe essere il momento di cambiare il modo in cui vediamo il colesterolo HDL – afferma il primo autore della ricerca, Marc Allard-Ratick, della Emory University School of Medicine di Atlanta (USA) – Attualmente i medici dicono ai loro pazienti che più alto è il  colesterolo “buono”, meglio è. Tuttavia, i risultati di questo studio, insieme ad altri, suggeriscono che questo potrebbe non essere vero. ”

Lo studio ha preso in considerazione 5.965 pazienti, per la maggior parte cardiopatici, con un’età media di 63 anni e il 35%  di donne.

I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi in base al loro livello di colesterolo HDL:

  • <30 mg/dl (0,78 mmol/L)
  • 31-40 mg/dl (0,8-1 mmol /L)
  • 41-50 mg/dl (1,1-1,3 mmol /L)
  • 51-60 mg/dl (1,3-1,5 mmol /L)
  • >60 mg/dl (1,5 mmol /L).

Durante un follow-up medio di quattro anni, 769 (13%) partecipanti hanno avuto un infarto o sono morti per cause cardiovascolari. I partecipanti con colesterolo HDL 41-60 mg/dl avevano il più basso rischio di infarto o morte cardiovascolare. Il rischio è aumentato sia nei partecipanti con bassi livelli (<41 mg/dl) sia con livelli molto alti (>60 mg/dl) di colesterolo HDL.

Il rischio di attacco cardiaco o di morte per cause cardiovascolari in chi aveva HDL superiori a 60 mg/dl è risultato superiore del 50% rispetto al gruppo con livelli di colesterolo HDL 41-60 mg/dl.

Questo dato trova riscontro in altri studi di popolazione, che hanno evidenziato i rischi di un livello eccessivo di colesterolo HDL.  “I nostri risultati sono importanti – ribadisce Allard-Ratick – perché contribuiscono a un corpo sempre crescente di prove che livelli di colesterolo HDL molto elevati potrebbero non essere protettivi. Inoltre questo studio è stato condotto principalmente in pazienti con malattia cardiaca accertata. ”

In assenza di una spiegazione chiara sui meccanismi all’origine di questa associazione tra alti livelli di HDL e rischio di eventi cardiaci gli autori ipotizzano che il colesterolo HDL estremamente elevato possa diventare un “HDL disfunzionale” di proteggere dagli eventi cardiovascolari li favorisce.
“Una cosa è certa – conclude Allard-Ratick – il mantra del colesterolo HDL come “colesterolo buono” non dovrebbe più essere utilizzato per tutti i pazienti”.

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