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22 Ottobre 2020 By Associazione Cuore Vivo

Alimentazione e tumori, cosa sappiamo realmente

Obesità e alcool sono i due fattori nutrizionali che più contribuiscono allo sviluppo di patologie oncologiche a livello globale. Questa è la conclusione del lavoro di un gruppo di ricercatori che ha analizzato le evidenze scientifiche attualmente disponibili sulla relazione fra dieta, nutrizione e rischio di cancro.

Dieta e cancro: poche certezze

I ricercatori sono partiti dall’ipotesi che l’alimentazione abbia un’influenza importante sul rischio di sviluppare il cancro. Una prospettiva supportata da numerose evidenze a livello epidemiologico, con studi che mostrano la relazione evidente tra il consumo di certi alimenti e la maggiore prevalenza di alcuni tipi di tumore. Ad esempio, i paesi con un elevato consumo di carne hanno alti tassi di cancro del colon-retto.
Tuttavia, stabilire gli effetti della dieta sul rischio di cancro non è compito facile e in questo studio i ricercatori hanno cercato di stabilire quali siano i fattori  dietetici che allo stato attuale della ricerca hanno dimostrato di influire (positivamente o negativamente) sul rischio di cancro, partendo dai tumori del tratto digerente e altri tipi comuni di cancro, indicando poi le principali sfide per la ricerca futura.

Passando in rassegna gli studi disponibili i ricercatori hanno evidenziato i fattori dietetici che gli esperti indicano come “probabili” cause di incremento o diminuzione del rischi.

I ricercatori hanno poi considerato le percentuali di tumore che si possono attribuire a fattori dietetici modificabili nel Regno Unito. Il sovrappeso e l’obesità sono la seconda causa, responsabile del 6,3% dei tumori nel Regno Unito e la causa principale nei non fumatori. Anche l’alcool (3,3%), anche le carenze di fibra alimentare (3,3%) e la carne lavorata (1,5%) sono tra le prime 10 cause. Le analisi di alcuni altri paesi hanno prodotto stime sostanzialmente simili.

Fonte: Brown KF et al., Br J Cancer, 2018

Le sfide per la ricerca

Gli autori dello studio sottolineano la difficoltà di avere dati certi che possano collegare il regime alimentare e il rischio di cancro. Oltre ai pochi dati con una buona evidenza, raccolti in questo studio, ma la ricerca futura potrebbe mostrare ulteriori importanti fattori di rischio, forse per componenti alimentari specifici o per specifici schemi dietetici. Per andare avanti, la nuova generazione di studi deve migliorare le stime dell’esposizione a lungo termine con, ad esempio, registrazioni dietetiche ripetute, che ora sono fattibili utilizzando questionari basati sul web.

I biomarcatori dell’assunzione alimentare e dello stato nutrizionale possono essere utilizzati in modo più estensivo e nuovi biomarcatori potrebbero essere trovati attraverso la metabolomica, ad esempio, ma dovranno essere convalidati e interpretati alla luce di possibili fattori confondenti e di causalità inversa e saranno necessari studi randomizzati per testare ipotesi specifiche. Sarà anche importante tentare di coordinare le analisi sistematiche di tutti i dati disponibili in tutto il mondo. Per la salute pubblica e la politica, la massima priorità dovrebbe essere quella di affrontare i principali fattori di rischio legati alla dieta per il cancro, in particolare obesità e alcol.

I messaggi principali

In sintesi le conclusioni di questa analisi sono che l’obesità e l’alcol aumentano il rischio di diversi tipi di cancro e tra i fattori nutrizionali sono quelli per i quali ci sono maggiori evidenze a livello globale. Per il cancro del colon-retto, la carne lavorata aumenta il rischio e la carne rossa probabilmente aumenta il rischio mentre fibre vegetali, latticini e calcio probabilmente riducono il rischio. Gli alimenti contenenti mutageni possono provocare il cancro; alcuni tipi di pesce salato aumentano il rischio di cancro rinofaringeo e gli alimenti contaminati da aflatossine (tossine generate da muffe e funghi) aumentano il rischio di cancro al fegato.

Per quanto riguarda il consumo di frutta e verdura non ci sono evidenze certe che li colleghino al rischio di cancro, anche se è verosimile che una dieta povera di questi alimenti possa favorire lo sviluppo di tumori. Altri fattori nutrizionali potrebbero contribuire al rischio di cancro, ma le prove attualmente non sono abbastanza solide per esserne sicuri.

 

 

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22 Ottobre 2020 By Associazione Cuore Vivo

Diabete tipo 2, il peso conta più della predisposizione genetica

In uno studio presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC 2020) è stato valutato su un’ampia popolazione il rischio di sviluppare la malattia diabetica, confrontando il rischio associato alla predisposizione genetica con quello relativo all’indice di massa corporea (BMI).

È emerso che il BMI è fortemente collegato al rischio di diabete di tipo 2, indipendentemente dalla predisposizione genetica alla malattia. Un risultato che evidenzia l’importanza di un intervento tempestivo sul sovrappeso, che potrebbe prevenire la malattia o invertire il decorso nelle fasi iniziali.

Lo studio

Lo studio ha incluso 445.765 partecipanti presenti nella UK Biobank un registro inglese che include il profilo genetico degli iscritti. L’età media era di 57,2 anni e il 54% erano donne. Altezza e peso sono stati misurati all’arruolamento. I partecipanti sono stati divisi in cinque gruppi in base al rischio genetico di diabete e in cinque gruppi in base al BMI. I partecipanti sono stati seguiti fino a un’età media di 65,2 anni. Durante quel periodo, 31.298 hanno sviluppato il diabete di tipo 2.

I soggetti del gruppo con BMI più alto (in media 34,5 kg/m2) avevano un rischio di diabete 11 volte maggiore rispetto ai partecipanti nel gruppo con BMI più basso (media 21,7 kg/m2). Il gruppo con il BMI più alto aveva una maggiore probabilità di sviluppare il diabete rispetto a tutti gli altri gruppi con BMI, indipendentemente dal rischio genetico.

“I risultati indicano che il BMI è un fattore di rischio molto più importante della predisposizione genetica per il diabete”, ha detto Brian Ference, cardiologo, direttore del Centro per la Ricerca Traslazionale all’Università di Cambridge.

 

I ricercatori hanno quindi utilizzato metodi statistici per stimare se la probabilità di diabete nelle persone con un BMI elevato sarebbe stata ancora maggiore se fossero state in sovrappeso per un lungo periodo di tempo. Hanno scoperto che la durata di un BMI elevato non ha avuto un impatto sul rischio di diabete.

Il professor Ference, ha affermato: “Ciò suggerisce che quando le persone superano una certa soglia di BMI, le loro possibilità di diabete aumentano e rimangono allo stesso livello di rischio elevato indipendentemente da quanto tempo sono in sovrappeso”.

La soglia del rischio è diversa per ogni persona e corrisponde al BMI oltre il quale si notano livelli di zucchero nel sangue anormali.

“I risultati – conclude Ference – indicano che la maggior parte dei casi di diabete potrebbe essere evitata mantenendo l’Indice di Massa Corporea al di sotto del limite che innesca la glicemia anormale. Ciò significa che per prevenire il diabete, sia il BMI che la glicemia dovrebbero essere valutati regolarmente. Gli sforzi per perdere peso sono fondamentali quando una persona inizia a sviluppare problemi di zucchero nel sangue. Potrebbe anche essere possibile invertire il diabete perdendo peso nelle fasi iniziali della malattia prima che si verifichi un danno permanente”.

 

 

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22 Ottobre 2020 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, una dieta sbagliata è il primo fattore di rischio per il cuore

Più di due terzi delle morti per cardiopatia ischemica nel mondo potrebbero essere evitate migliorando la dieta. Questa è la conclusione di uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista European Heart Journal – Quality of Care and Clinical Outcomes, una rivista della Società Europea di Cardiologia (ESC).

Nell’anno 2017 la cardiopatia ischemica ha causato 8,9 milioni di morti, che equivale al 16% di tutti i decessi, in aumento rispetto al 12,6% di tutti i decessi rilevato nel 1990.

Tra il 1990 e il 2017 sono quasi raddoppiati i casi di cardiopatia ischemica, anche se è diminuita la prevalenza (-11,8%), l’incidenza (-27,4%) e i tassi di mortalità (-30%) per questa malattia.

Questo vuol dire che “Sono stati compiuti progressi nella prevenzione delle malattie cardiache e nel miglioramento della sopravvivenza, in particolare nei paesi sviluppati, ma il numero di persone colpite continua a crescere a causa della crescita della popolazione e dell’invecchiamento”, spiega Xinyao Liu della Central South University, di Changsha (Cina), autore dello studio.

Quanto pesano i diversi fattori di rischio

I ricercatori hanno calcolato l’impatto di 11 fattori di rischio sulla mortalità per cardiopatia ischemica. Si trattava di:

  1. dieta
  2. ipertensione arteriosa
  3. colesterolo LDL alto
  4. glicemia alta
  5. fumo
  6. indice di massa corporea (BMI) elevato
  7. inquinamento atmosferico
  8. scarsa attività fisica
  9. funzionalità renale compromessa
  10. esposizione al piombo
  11. abuso di alcol

Analizzando il peso di ognuno di questi fattori di rischio e ipotizzando che gli altri non avessero influenza risulta che il 69,2 % dei decessi per cardiopatia ischemica nel mondo potrebbe essere prevenuto se si adottassero diete più sane, il 54,4 % se la pressione arteriosa sistolica fosse mantenuta a 110-115 mmHg, il 41,9% se le LDL sieriche fossero mantenute a 0,7-1,3 mmol/L.

Inoltre circa un quarto dei decessi per cardiopatia ischemica (25,5 %) potrebbe essere prevenuto se la glicemia a digiuno fosse mantenuta a 4,8-5,4 mmol/L, mentre l’eradicazione del fumo e del fumo passivo potrebbe fermare un quinto (20,6 %) dei decessi.
L’uso del tabacco si è classificato al quarto posto nella causa dei decessi per cardiopatia ischemica negli uomini, ma solo al settimo nelle donne. L’alto indice di massa corporea è stato il quinto maggior contributore alle morti per cardiopatia ischemica nelle donne e il sesto negli uomini. Per le donne, il 18,3% dei decessi per cardiopatia ischemica potrebbe essere prevenuto se il BMI fosse mantenuto a 20-25 kg/m2.

“La cardiopatia ischemica, conclude Liu, è ampiamente prevenibile con comportamenti sani e le persone dovrebbero prendere l’iniziativa per migliorare le proprie abitudini. Inoltre, sono necessarie strategie su misura per le diverse aree geografiche. Ad esempio, i programmi per ridurre l’assunzione di sale possono avere i maggiori benefici nelle regioni in cui il consumo è più elevato come la Cina e l’Asia centrale”.

 

 

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28 Giugno 2020 By Cuorevivo

Settimana del pesce azzurro 2020

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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, per le donne è più difficile smettere di fumare

Le donne che seguono programmi medici per smettere di fumare avrebbero la metà delle probabilità di successo rispetto agli uomini. È quanto emerge da uno studio presentato al Canadian Cardiovascular Congress (CCC) 2019, che si è concluso a Montréal, lo scorso 27 ottobre.

Lo studio si basa su un’analisi retrospettiva che ha incluso 233 pazienti, afferenti al St. Michael’s Hospital di Toronto (Canada), tra il 2008 e il 2018.

L’età media dei pazienti era di 56 anni e il 35% era di sesso femminile. I partecipanti hanno riferito di fumare in media 18 sigarette al giorno, nell’arco di un periodo medio di 37 anni. Due terzi (66%) avevano dislipidemia, il 66% ipertensione, il 44% aveva una malattia coronarica e il 28% aveva depressione o ansia.

I partecipanti hanno ricevuto consulenza medica personalizzata e, se necessario, prescrizione di farmaci, come terapia sostitutiva alla nicotina. Dopo sei mesi, 58 (25%) dei partecipanti hanno smesso di fumare e 68 (29%) hanno ridotto il numero giornaliero di sigarette di oltre il 50%.

Nell’analisi regressiva il sesso femminile è risultato un fattore indipendente per il successo del programma, con il 50% di probabilità in meno rispetto a quello maschile.

“Nel nostro studio, le donne avevano  una prevalenza più alta di ansia o depressione rispetto agli uomini (41% contro il 21%), che potenzialmente ha disturbato il processo di cessazione del fumo – ha detto l’autrice dello studio Carolina Gonzaga Carvalho, del St. Michael’s Hospital – Anche i fattori ormonali o sociali avere svolgere un ruolo. Il nostro studio osservazionale non può indicare una causa, ma mostra la necessità di prevedere analisi di genere e trattamenti specifici per i due sessi. ”

Anique Ducharme, Presidente del comitato per il programma scientifico del CCC 2019, ha dichiarato:

“Questo studio fornisce importanti spunti per aiutare il medico a discutere della cessazione del fumo con i propri pazienti. È fortemente necessario un approccio specifico di genere, al fine di ottenere buoni risultati anche per le donne, affrontando l’eventuale presenza di ansia o depressione, fattori ormonali e sociali che sembrano tutti avere un ruolo.”

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