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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

L’insonnia potrebbe aumentare il rischio di infarto e ictus

Un grande studio osservazionale cinese, appena pubblicato sulla rivista Neurology, ha mostrato un legame fra i principali disturbi del sonno e un aumento del rischio di eventi cardiovascolari e cerebrovascolari, come infarto e ictus.

Un dato che, secondo gli esperti, dovrebbe spingere a valutare meglio il rischio cardiaco in persone giovani con problemi di insonnia, anche in assenza di altri fattori di rischio.  Inoltre, lo studio suggerisce che un adeguato trattamento dei disturbi del sonno possa avere effetti positivi anche sulla prevenzione cardiovascolare.

Lo studio

I ricercatori hanno attinto ai dati da uno studio prospettico di coorte, che ha reclutato 487.220 adulti dai 30 ai 79 anni d’età, in 10 aree della Cina. Tutti i partecipanti alla partenza dello studio non avevano cardiopatie, ictus pregresso o tumori.

Sono stati valutati con appositi questionari tre disturbi del sonno: la difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno, il risveglio precoce, i disturbi durante il giorno collegati alla carenza di sonno.

Durante un follow up che si è protratto per quasi 10 anni sono stati documentati 130.032 casi di patologie cardiovascolari (CVD). L’analisi dei dati, dopo correzione per i diversi fattori di rischio ha mostrato che ognuno dei tre sintomi di disturbo del sonno faceva aumentare il rischio di cardiopatia ischemica e ictus. In particolare il risveglio precoce aumenta del 7% il rischio CV, la difficoltà ad addormentarsi o mantenere il sonno lo aumenta del 9% e i disturbi diurni del 13%. I partecipanti con tutti e 3 i sintomi presentavano un rischio maggiore del 18% di CVD, del 22% di ipertensione, del 10% di ictus ischemico, rispetto agli adulti senza problemi di sonno.

Le associazioni tra 3 sintomi di sonno disturbato e l’incidenza di CVD erano più forti nei giovani adulti e in quelli senza ipertensione all’inizio dello studio.

Gli autori concludono che i tre sintomi dell’insonnia, da soli o in combinazione, vanno considerati un fattore di rischio indipendente per le malattie cardiovascolari.

I commenti

Tra i primi commenti apparsi su questo studio c’è quello di James Burke, neurologo dell’Università del Michigan (Usa), che invita a valutare con cautela i risultati di questo studio, perché la grande quantità di persone e di dati rende difficile valutare in che misura sia proprio l’insonnia responsabile dell’aumento del rischio cardiaco.

Julio Fernandez-Mendoza, specialista di disturbi del sonno del Penn State College of Medicine, Hershey, Pennsylvania (Usa) fa notare che lo studio suggerisce uno screening più attento di soggetti tra i 30 e i 49 anni che hanno disturbi del sonno, anche in assenza di fattori di rischio come l’ipertensione

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26 Novembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Prevenzione, perché bisogna mantenersi attivi dopo i sessant’anni

L’attività fisica svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento della salute e nella prevenzione delle malattie. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la sedentarietà è uno dei maggiori fattori di rischio per malattie metaboliche e cardiovascolari. L’OMS raccomanda di mantenere buoni livelli di attività fisica anche dopo i 65 anni di età.

Lo studio

Un nuovo studio coreano, pubblicato sull’European Heart Journal, conferma che dopo i 60 anni di età non ridurre o addirittura incrementare l’attività fisica abbassa il rischio di malattie cardiovascolari. Lo studio ha coinvolto oltre 1,1 milioni di soggetti di età pari o superiore a 60 anni, senza malattie cardiovascolari alla partenza, sottoposti a due screening sanitari nazionali consecutivi tra il 2009 e il 2012. I ricercatori hanno valutato le modificazioni del rischio CV in relazione al livello di attività fisica moderata- intensa (MPVA Moderate Vigorous Physical Activity).

Nella tabella sono indicati alcuni esempi di attività fisica moderata e intensa

Ad ogni controllo sanitario i partecipanti hanno risposto a domande sulla loro attività fisica e stile di vita. I ricercatori hanno calcolato la quantità di esercizio moderato (ad es. 30 minuti o più al giorno di camminata veloce, danza, giardinaggio) ed esercizio fisico intenso (ad es. 20 minuti o più al giorno di corsa, ciclismo veloce, esercizio aerobico) a settimana in ogni screening, e come era cambiato durante i due anni tra i due screening.

L’età media dei partecipanti era di 67 anni e il 47% erano uomini. Circa due terzi hanno dichiarato di essere fisicamente inattivi sia nel primo che nel secondo periodo di screening. Una percentuale più elevata di donne era fisicamente inattiva (78% e 77%) rispetto agli uomini (67% e 66%) in entrambi i periodi di screening. Solo il 22% delle persone inattive ha aumentato la propria attività fisica al momento del secondo controllo sanitario e il 54% delle persone che svolgevano attività fisica cinque o più volte alla settimana al momento del primo screening erano diventate inattive al momento del secondo. Durante il periodo di follow-up si sono verificati in totale 114.856 casi di malattie cardiache o ictus.

I risultati

Le persone che sono passate dall’essere inattive al controllo sanitario 2009-2010 ad essere moderatamente o vigorosamente attive tre o quattro volte alla settimana al controllo sanitario 2011-2012 avevano un rischio di problemi cardiovascolari ridotto dell’11% . Coloro che erano moderatamente o vigorosamente attivi una o due volte alla settimana al primo controllo avevano un rischio ridotto del 10% se aumentavano la loro attività a cinque o più volte alla settimana.

Al contrario, coloro che erano moderatamente o vigorosamente attivi più di cinque volte alla settimana al primo controllo e poi sono diventati inattivi al secondo controllo avevano un rischio di problemi cardiovascolari aumentato del 27%.

Quando i ricercatori hanno esaminato le persone con disabilità e malattie croniche hanno scoperto che coloro che sono passati da inattivi ad essere moderatamente o vigorosamente attivi tre o quattro volte alla settimana hanno anche ridotto il rischio di problemi cardiovascolari. Le persone con disabilità avevano un rischio ridotto del 16% e quelle con diabete, aumento della pressione sanguigna o livelli di colesterolo avevano un rischio ridotto tra il 4 e il 7%.

Kyuwoong Kim, del Dipartimento di Scienze Biomediche, Università di Seoul (Corea del Sud) primo autore dello studio,  ha dichiarato: “Il messaggio più importante di questa ricerca è che gli adulti più anziani dovrebbero aumentare o mantenere la frequenza di esercizio per prevenire le malattie cardiovascolari. A livello globale, questa scoperta è importante per la salute pubblica perché la popolazione mondiale di età pari o superiore a 60 anni dovrebbe raggiungere i due miliardi entro il 2050. Con l’invecchiamento si possono avere maggiori difficoltà a svolgere un’attività fisica regolare, la nostra ricerca suggerisce che è necessario essere più attivi fisicamente per la salute cardiovascolare, e questo vale anche per le persone con disabilità e condizioni di salute croniche.”

“Riteniamo che i governi – conclude Kim – dovrebbero promuovere programmi per incoraggiare l’attività fisica tra gli anziani. Inoltre, dal punto di vista clinico, i medici dovrebbero “prescrivere” l’attività fisica insieme ad altri trattamenti medici raccomandati per le persone ad alto rischio di malattie cardiovascolari “.

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31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Ipertensione, le malattie delle gengive sono associate alla pressione alta

Chi soffre di patologie alle gengive (periodontiti) è più a rischio di ipertensione. Il dato emerge con chiarezza in uno studio pubblicato su Cardiovascular Research.

Francesco D’Aiuto del prestigioso Eastman Dental Institute, riassume così i risultati dello studio: “Abbiamo osservato un’associazione lineare: più la parodontite è grave, maggiore è la probabilità di ipertensione. I risultati suggeriscono che i pazienti con malattia gengivale dovrebbero essere informati del loro rischio e invitati a cambiare stile di vita per prevenire l’ipertensione.”

Ricerche precedenti hanno già indicato una possibile associazione tra periodontiti e pressione alta, questo studio conferma l’associazione con una metanalisi di 81 studi, condotti in 26 paesi.

La parodontite da moderata a grave risultata associata ad un rischio di ipertensione aumentato del 22 % , mentre la parodontite grave è associata a una probabilità di ipertensione maggiore del 49 %. Inoltre si può osservare un aumento del rischio di ipertensione con l’aggravarsi della patologia gengivale.

I soggetti con periodontite confrontati c on quelli con gengive sane hanno in media valori più alti di 4,5 mm Hg per la pressione sistolica e 2 mm Hg per la pressione diastolica. “Differenze non  trascurabili, infatti un aumento medio della pressione arteriosa di 5 mm Hg è collegato a un aumento del 25% del rischio di morte per infarto o ictus.”

I ricercatori hanno notato che al momento non ci sono dati sufficienti per sapere se curando le gengive si ottiene una riduzione dei valori pressori, sono necessari quindi studi specifici su questo aspetto.

Per quanto riguarda i potenziali motivi dell’associazione tra gengiviti e pressione alta l’ipotesi più accreditata è che i batteri orali possano causare stati infiammatori generali che coinvolgono anche i vasi sanguigni. Anche la  predisposizione genetica potrebbe svolgere un ruolo, insieme a fattori di rischio condivisi come il fumo e l’obesità.

“In molti paesi del mondo, la salute orale non viene controllata regolarmente e la malattia gengivale rimane non trattata per molti anni. L’ipotesi è che questa situazione di infiammazione orale e sistemica si accumuli in aggiunta ai fattori di rischio esistenti. “

Infine, gli autori dello studio fanno notare che questi indicano che la malattia gengivale possa essere un fattore di rischio per l’ipertensione, ma potrebbe anche essere vero il contrario, ossia l’ipertensione potrebbe essere causa di periodontiti. “Sono necessarie ulteriori ricerche – scrivono gli autori dello studio – per capire se i pazienti con ipertensione arteriosa hanno una maggiore probabilità di malattie gengivali. In ogni caso sembra opportuno fornire consigli sulla salute orale a coloro che sono ipertesi.”

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31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Attacco cardiaco: attenzione a non sottovalutare i sintomi levi

Quando i sintomi di un attacco cardiaco iniziano gradualmente e non sono successivi a uno sforzo, i pazienti hanno difficoltà a riconoscerne la gravità e si recano in pronto soccorso in ritardo, rischiando così di perdere una

finestra oraria importante per preservare la funzione cardiaca.

È quanto emerge da uno studio condotto negli USA dal team coordinato da Sahereh Mirzaei dell’Università dell’Illinois di Chicago.

Lo studio

Gli autori hanno analizzato i dati relativi a pazienti partecipanti a un più ampio studio sul cuore condotto in diversi Stati degli USA.

Successivamente si sono focalizzati su 343 uomini e 131 donne, di età compresa tra i 29 e i 93 anni, ricoverati in pronto soccorso e per una sindrome coronarica acuta, successivamente confermata.

Quasi la metà dei rispondenti, il 44%, ha segnalato un’insorgenza graduale dei sintomi; il resto sintomi improvvisi. Inoltre, la metà dei pazienti ha impiegato quattro o più ore prima di andare in ospedale.

Quelli i cui sintomi si erano presentati gradualmente hanno impiegato fino a sei ore in più degli altri pazienti per chiedere un aiuto medico e recarsi in ospedale.

In un attacco cardiaco improvviso, i pazienti manifestano un forte dolore fin dall’inizio. Invece, i sintomi di un attacco graduale – leggero malessere, difficoltà a respirare e tensione al torace – non sono così netti, come

sottolineano gli autori dello studio.

“I sintomi possono apparire e scomparire, ma la patologia cardiaca no. Conoscete i vostri sintomi e cercate assistenza medica immediatamente”, conclude l’autrice principale dello studio

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31 Ottobre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Omega-3, nuove conferme sui benefici cardiovascolari

Il consumo giornaliero di Omega-3 riduce il rischio di infarto, morte per coronaropatia o altre cause cardiovascolari ma non di ictus. Queste le conclusioni di una metanalisi condotta dalla Harvard T.H. Chan School of Public Health e dal Brigham and Women’s Hospital.

Si tratta dell’aggiornamento di una metanalisi precedente cui sono stati aggiungi i dati di altri tre trial: Vital, sino a oggi il più ampio mai condotto sugli omega 3, Ascend e Reduce-it. La popolazione esaminata è stata così di circa 130 mila persone totali, provenienti nel complesso da 13 trial randomizzati, maschi per il 60% dei casi, un’età media al basale di 64 anni, Bmi 28 Kg/m2 e follow up di 5 anni. Nel 40% dei casi si trattava di diabetici, mentre il 72% utilizzava farmaci anti-colesterolo al momento dell’arruolamento. La dose di omega 3 variava, nei diversi trial, tra 376 e 4.000 mg/die.

Il consumo giornaliero di Omega-3 determinava un minor rischio di eventi cardiovascolari, eccetto l’ictus, rispetto al placebo, con un 8% in meno di infarto o morte per malattia coronarica. Un effetto nettamente dose-risposta che suggerisce un dosaggio consigliato sopra gli 840 mg/die.

“Si tratta della meta-analisi con le informazioni più aggiornate relative agli effetti della supplementazione di Omega-3 sul rischio di eventi cardiovascolari”, dice Yang Hu, del dipartimento di nutrizione della Harvard Chan School e tra gli autori dello studio. “Abbiamo infatti potuto riscontrare significativi esiti protettivi, con un evidente effetto dose-risposta”.

Così Joann Manson, capo della divisione di medicina preventiva presso il Brigham and Women’s Hospital e coordinatore dello studio Vital sugli omega-3: “Sebbene sia sempre opportuno insistere su un maggior consumo di pesce, una dieta sana, maggiore attività fisica e l’adozione di altri stili di vita benefici per la salute del cuore, questo studio suggerisce che l’integrazione con omega-3 può svolgere un ruolo importante in pazienti selezionati“.

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