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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Arriva la dieta dell’orologio: tutti i pasti in 6 ore

Tutti i pasti entro sei ore: è la dieta dell’orologio, il rimedio per bruciare grassi senza ridurre le calorie nel piatto. A sostenerlo è uno studio condotto dalla ricercatrice italiana Eleonora Poggiogalle del Pennington Biomedical Research Center in USA con l’équipe di Eric Ravussin e Courtney Peterson e attualmente all’Università Sapienza di Roma.

Si comincia alle 8 del mattino con la colazione, si passa al pranzo verso le 11 per concludere, intorno alle 14.00 con la cena. Per le restanti 18 ore? Digiuno. “Il nostro è il primo studio clinico randomizzato sull’influenza degli orari dei pasti sul metabolismo e sulla riduzione della massa grassa in eccesso”, spiega Poggiogalle. La “dieta dell’orologio” non è un regime ipocalorico, né prevede la riduzione di zuccheri o grassi, è un’alimentazione bilanciata (che contiene il 50% di carboidrati, il 35% di grassi e il 15% di proteine) che ha come unica clausola rispettare gli orari dei pasti, limitando l’assunzione calorica nella prima parte della giornata (secondo i ritmi naturali del corpo o circadiani), continua Poggiogalle.

Lo studio ha coinvolto un piccolo gruppo di pazienti di entrambi i sessi, di 20-45 anni, tutti sovrappeso (dai 68 ai 100 kg di peso). A rotazione i partecipanti dovevano o consumare i pasti nell’arco di 12 ore (dalle 8 del mattino alle 20) per 4 giorni di seguito e poi sempre per 4 giorni mangiare solo nell’arco di 6 ore e digiunare per il resto della giornata. “Nei partecipanti sottoposti a ‘Early-time restricted-feeding’ (una forma di “digiuno intermittente”), i tre pasti sono stati somministrati alle ore 8, 11 e 14 – spiega Poggiogalle – mentre nel gruppo di controllo alle 8, alle 14 e alle 20, secondo la media abituale degli orari dei pasti principali per la popolazione statunitense”.

Durante la ‘dieta dell’orologio’ dopo l’ultimo pasto delle 14 non era consentita l’ingestione di alcun alimento, lasciando trascorrere circa 18 ore di digiuno fino al pasto successivo, continua.    Anche se intuitivamente si pensa che in queste 18 ore la fame vada via via crescendo, sottolinea Poggiogalle, “lo studio ha rivelato che la distribuzione dei pasti entro le sei ore produce in realtà una riduzione dei livelli di ‘grelina’, un ormone responsabile della sensazione di fame, altresì la sensazione di sazietà e il desiderio di cibo hanno mostrato la tendenza a ridursi”.

Inoltre, a parità di dieta, consumare i tre pasti nell’arco di sei ore nella prima parte della giornata ha un effetto “brucia-grassi” dovuto alla durata del digiuno che favorisce la mobilizzazione delle ‘scorte adipose’ nel corpo, senza essere nocivo perché è limitato nel tempo. Sia la diminuzione dell’appetito, sia l’effetto brucia-grassi, conclude l’esperta, provano il potenziale dimagrante di questa dieta che andrà adesso sperimentata per più lunghi periodi di tempo per confermarne l’efficacia.

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Riparare i danni dell’infarto con le cellule staminali: si può fare!

La rigenerazione del tessuto cardiaco con il trapianto di cellule staminali è una delle opzioni terapeutiche più promettenti per offrire un’alternativa al trapianto di cuore dopo le forme più gravi di infarto del miocardio.

In uno studio su animali da laboratorio è stato sperimentato con successo un nuovo approccio basato sull’effetto sinergico di un doppio trapianto di cellule staminali, che punta a recuperare contemporaneamente la funzionalità del muscolo cardiaco e la vascolarizzazione dell’area compromessa dall’infarto.

La ricerca è stata realizzata da un team della Konkuk University, della Catholic University of Korea, della Pohang University of Science and Technology e del T&R Biofab in Corea del Sud. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

Tecnicamente si tratta dell’impiego di due tipi di cellule staminali, vale a dire le cellule staminali mesenchimali derivate dal midollo osseo umano (hMSC) e i cardiomiociti derivati ​​da cellule staminali umane pluripotenti (hiPSC-CMs).

Studi precedenti hanno descritto separatamente i benefici dell’uso di queste due distinte cellule staminali nella riparazione cardiaca, in questo studio sono state impiegate simultaneamente. Gli hiPSC-CM sono stati iniettati per via intramiocardiale direttamente nel cuore del ratto, mentre un cerotto caricato con hMSC è stato impiantato ai bordi dell’area dell’infarto, come una benda.

I risultati hanno mostrato che questo duplice approccio ha portato a un significativo miglioramento della funzione cardiaca e al potenziamento della formazione dei vasi del cuore dopo l’infarto. Il cerotto impiantato con hMSC non solo ha fornito un micro-ambiente che ha migliorato la rigenerazione vascolare, ma ha anche migliorato la ritenzione di hiPSC-CMs, aumentando la funzione cardiaca e ripristinando il miocardio compromesso.
La maturazione funzionale degli hiPSC-CMs iniettati per via intramuscolare è particolarmente importante, perché può ridurre il potenziale rischio di aritmie, una delle principali cause di morte cardiaca improvvisa.

“Riteniamo che questo nuovo duplice approccio possa potenzialmente offrire benefici traslazionali e clinici nel campo della rigenerazione cardiaca”, ha affermato Ban Kiwon, biologo delle cellule staminali, Dipartimento di Scienze biomediche, City University (Honk Kong). “Basato sullo stesso principio, il protocollo può anche essere utilizzato per riparare altri organi tra cui cervello, fegato e pancreas in cui coesistono più tipi di cellule staminali”.

Il team sta lavorando a studi di follow-up su modelli animali più grandi come i maiali

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Over65, ancora molto da fare per migliorare la salute

Gli over 65 sono una fascia di popolazione cruciale per la sostenibilità del sistema sanitario. In costante aumento, per effetto dell’invecchiamento della popolazione, rappresentano ormai un quarto circa sul totale dei cittadini italiani. E molto c’è ancora da fare per migliorare i parametri di salute.

È quanto emerge da Passi d’Argento (PdA), il sistema di sorveglianza della popolazione anziana voluto da Asl e Regioni e coordinato dall’Istituto superiore di sanità, basato su un campione di 40.000 soggetti.

“Anche se si registrano lievi miglioramenti nella lotta alla sedentarietà, rimangono abitudini alimentari sostanzialmente scorrette e un’immunizzazione non sufficiente”, ha commentato,Michele Conversano, presidente di HappyAgeing Alleanza italiana per l’invecchiamento attivo, dal 2014 impegnata a promuovere nel nostro Paese politiche e iniziative per la tutela della salute dell’anzianoInoltre, si conferma la grande disuguaglianza tra le regioni nelle politiche sanitarie messe in atto a favore degli anziani”.

Dieta da migliorare e vaccinazioni insufficienti

I risultati dell’indagine sono eloquenti. Tra gli ultrasessantacinquenni, il consumo medio giornaliero di frutta e verdura è ancora lontano da quello raccomandato dalle linee guida, anche se i problemi accertati di masticazione riguardano solo il 12,7% dei soggetti su base nazionale. Ancora rilevante la quota di persone sovrappeso, che arriva al 43% della popolazione anziana.

La percentuale di vaccinati contro l’influenza arriva al 55% se si guarda al dato nazionale, mentre i dati disaggregati parlano di una quota del 61,7% tra chi soffre di almeno una patologia cronica, e del 44,9% nel resto della popolazione.

Un’altra criticità riguarda la forte tendenza alla medicalizzazione: quasi il 90% degli intervistati da da Passi d’Argento ha dichiarato di aver assunto farmaci nella settimana precedente.

Più attenzione a uno stile di vita sano

In ultimo, gli stili di vita, con piccoli progressi rispetto al passato ma con standard ancora insufficienti per una prevenzione efficace delle patologie e per il mantenimento di uno stato di benessere, pur con dati locali che denunciano forti disparità tra una regione e l’altra. Se  si guarda al fumo di sigaretta, la statistica mostra che il 10% del campione dichiara di essere ancora fumatore. La restante quota si divide tra soggetti che non fumano (63%) o che hanno smesso da oltre un anno. Agli estremi della statistica sui fumatori, la Puglia, dove il tabagismo riguarda il 17% della popolazione di ultrasessantacinquenni, e la Puglia dove arriva al 7,3%.

Per quanto riguarda l’attività fisica, il 60% si ritiene parzialmente o completamente attivo, mentre il restante 38% è costituito da persone che si definiscono totalmente sedentarie. La quota dei sedentari varia dal 21% nella provincia autonoma di Trento al 55% della Basilicata.

A fronte di questa situazione con luci e ombre, la percezione soggettiva degli over65 interpellati è tendenzialmente buona, anzi forse troppo ottimistica: l’87% del campione ha dichiarato di sentirsi in buona salute

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Vuoi prevenire la demenza? Esci con gli amici

Una vita sociale soddisfacente a sessant’anni abbassa del 12% il rischio di sviluppare demenza nei decenni successivi.

Lo dimostra una ricerca, pubblicata su Plos Medicine, condotta su una popolazione di oltre 10mila persone da ricercatori della Divisione di Psichiatria dell’University College of London (UCL), Londra (UK).

Studi precedenti hanno evidenziato che la vita sociale e di relazione gioca un ruolo importante nella prevenzione della demenza, tuttavia, sottolineano i ricercatori, tutti gli studi avevano un follow-up troppo breve per verificare l’importanza della vita di relazione per il mantenimento delle funzioni cognitive nel corso della vita. Questo studio si è posto l’obiettivo verificare l’associazione tra vita sociale e salute cognitiva con un follow-up di ben 28 anni.

Lo studio su contatti sociali e incidenza di demenza

I ricercatori hanno condotto un’analisi retrospettiva dello studio prospettico di coorte longitudinale di Whitehall II su 10.308 dipendenti dei dipartimenti del servizio civile di Londra, di età compresa tra 35 e 55 anni. Lo studio è partito nel 1985-1988 e si è concluso nel 2017.

I contatti sociali dei partecipanti sono stati valutati sei volte attraverso un questionario che riportava la frequenza di contatti con parenti e amici non conviventi. I casi di demenza sono stati accertati con tre database clinici e le capacità cognitive sono state valutate cinque volte, utilizzando test di memoria verbale, fluidità verbale e ragionamento.

Contatti sociali più frequenti all’età di 60 anni sono risultati associati a un rischio di demenza più basso (HR per ogni DS di frequenza di contatto sociale più alta = 0,88 [IC 95% 0,79 – 0,98], p 0,02); l’associazione del contatto sociale a 50 o 70 anni con la demenza era simile, ma non statisticamente significativa.

Un contatto sociale più frequente durante la mezza età era associato a una migliore traiettoria cognitiva successiva: la funzione cognitiva globale era 0,07 (IC 95% 0,03, 0,11), p = 0,002 DS più alta per quelli con il terzile più alto rispetto al più basso della frequenza di contatto sociale, e questa differenza era mantenuta per 14 anni di follow-up.

L’importanza della riserva cognitiva

I risultati di questo studio quindi suggeriscono un effetto protettivo del contatto sociale contro la demenza, sebbene sia possibile che la capacità di mantenere un maggiore contatto sociale sia dovuta a migliori condizioni delle funzioni cognitive.

Andrew Sommerlad, primo autore dello studio sottolinea che questi risultati stimolano politiche di riduzione della solitudine e dell’isolamento sociale come parte integrante della prevenzione delle demenze.

Gill Livingston, professore presso il dipartimento di psichiatria dell’UCL, commenta: “Le persone socialmente impegnate esercitano capacità cognitive, come la memoria e il linguaggio, che possono aiutarle a sviluppare la riserva cognitiva che aiuta le persone a far fronte meglio agli effetti dell’età e di  eventuali sintomi di demenza”

Il concetto di riserva cognitiva si riferisce alla flessibilità e alla capacità del cervello di utilizzare le risorse in modi nuovi per risolvere nuovi problemi e sfide. Ad esempio l’istruzione e l’acquisizione di nuove informazioni possono aiutare a creare riserva cognitiva.

Livingston aggiunge: “Trascorrere più tempo con gli amici oltre che favorire il benessere mentale è correlato all’essere fisicamente attivi, due elementi che possono  ridurre il rischio di sviluppare demenza”.

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3 Settembre 2019 By Associazione Cuore Vivo

Vino rosso amico dell’intestino

Aumenta la varietà dei batteri del microbioma che si trova nell’intestino e aiuta a ridurre i livelli di obesità e colesterolo cattivo: è il vino rosso. A rivelarlo è uno studio del King’s College di Londra, pubblicato sulla rivista Gastroenterology, che però punta alla moderazione: secondo i ricercatori, infatti, i benefici si possono ricavare anche da un solo bicchiere ogni 15 giorni.

Gli effetti del vino rosso sull’intestino sono stati analizzati su tre diversi gruppi di circa tremila persone nel Regno Unito, in Olanda e negli Usa, e dalla ricerca è emerso che il microbioma intestinale dei bevitori di vino rosso era più diversificato di quello di chi non lo beveva, mentre ciò non è stato osservato con il consumo di vino bianco, birra o liquori.

Gli autori ritengono che il motivo principale dei benefici sia dovuto ai numerosi polifenoli nel vino rosso, cioè sostanze chimiche di difesa che hanno molte proprietà benefiche (inclusa quella antiossidante) e agiscono principalmente come ‘carburante’ per i microbi presenti nel nostro sistema intestinale. “Questa ricerca – spiega l’autore principale Tim Spector – fornisce approfondimenti sul fatto che gli alti livelli di polifenoli nella buccia dell’uva potrebbero essere responsabili di molti dei dibattuti benefici per la salute se si beve con moderazione”.

Lo studio ha anche scoperto che il consumo di vino rosso era associato a livelli più bassi di obesità e colesterolo “cattivo”. “Bere vino rosso una volta ogni tanto – il consiglio di Caroline Le Roy, prima autrice dello studio – ad esempio ogni due settimane, sembra essere sufficiente per osservare un effetto”.

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