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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

La Mediterranea intelligente Anche per preservare le capacità cognitive

L’alta aderenza alla dieta mediterranea o ad una dieta A Priori Diet Quality Score (APDQS) è associata a migliori capacità cognitive nella mezza età, mentre l’aderenza alla dieta DASH, progettata per abbassare la pressione sanguigna, non lo è.
In un ampio studio longitudinale che ha confrontato l’effetto delle tre diete sulla cognizione, i ricercatori hanno scoperto che coloro che seguivano la dieta mediterranea (MedDiet) in modo stretto avevano meno probabilità di avere un declino cognitivo. Lo stesso era vero per quelli con alta aderenza alla dieta APDQS.
Al contrario, una buona aderenza alla dieta DASH sembrava avere un impatto relativamente piccolo sulla conservazione delle capacità cognitive.
Mentre non conosciamo ancora le combinazioni ideali di alimenti per una dieta salubre per il cervello, potrebbe essere raccomandata ai pazienti una dieta sana per il cuore, ricca di frutta, verdura, legumi e noci, moderata nei pesci, latticini a basso contenuto di grassi e alcol e bassa in carne e alimenti trasformati.

Le tre diete salutari si sovrappongono nelle loro raccomandazioni e condividono alcuni punti in comune.
Il MedDiet si incentra su cereali integrali, frutta, verdura, grassi sani insaturi, noci, legumi e pesce e limita la carne rossa, il pollame e il latte intero.
L’APDQS enfatizza frutta, verdura, legumi, latticini a basso contenuto di grassi, pesce e alcol moderato e limita i cibi fritti, gli snack salati, i dolci, i latticini ad alto contenuto di grassi e le bevande analcoliche zuccherate.
La dieta DASH raccomanda cereali, verdure, frutta, latticini a basso contenuto di grassi, legumi e noci e limita la carne, il pesce, il pollame, il grasso totale, i grassi saturi, i dolci e il sodio.
Non è chiaro perché la dieta DASH non abbia mostrato un legame con una migliore cognizione!

Una possibilità è che DASH non consideri l’assunzione moderata di alcol come parte del regime alimentare, mentre le altre due diete lo fanno.
Eppure i risultati sono coerenti: i ricercatori hanno valutato 2621 partecipanti (57% donne, 45% neri, età media al basale 25 anni) nello studio di valutazione del rischio di arterie coronariche nei giovani adulti (CARDIA).

I partecipanti hanno completato questionari sulla dieta al basale e a una età media di 32 anni e 45 anni. I ricercatori hanno quindi calcolato i punteggi medi della dieta per classificare i partecipanti in gruppi a bassa, media e alta aderenza.

Hanno anche testato due volte la funzione cognitiva, quando i partecipanti avevano circa 50 e 55 anni.

I risultati hanno mostrato un legame tra i punteggi medi di MedDiet e il declino della funzione cognitiva.

I dati sono stati aggiustati per livello di istruzione, fumo, diabete e attività fisica.

Le prestazioni cognitive sono diminuite nel gruppo con punteggio basso di 0,04 punti, mentre nel punteggio medio e superiore sono aumentate di 0,03 punti. La differenza tra i gruppi di aderenza bassa e alta era statisticamente significativa (P = .03).

Allo stesso modo, tra la coorte a dieta APDQS, la funzione cognitiva nel gruppo dei punteggi bassi è diminuita di 0,04 punti, è rimasta la stessa per il gruppo medio e aumentata di 0,06 punti nel gruppo alto (P <.01).

I rapporti di probabilità quando si confrontano terzili estremi dei punteggi di dieta sono stati 0,54 (livello di confidenza al 95% [CI], 0,39 – 0,74) per il gruppo MedDiet, 0,48 (IC 95%, 0,33 – 0,69) per il gruppo APDQS e 0,89 (95% CI, 0,68 – 1,17) per il gruppo DASH.

I DASH non erano associati al cambiamento delle prestazioni cognitive.

Anche se le diete associate a una maggiore cognizione nella mezza età hanno condiviso alcune caratteristiche, tra cui un maggiore consumo di frutta e verdura, i benefici sono probabilmente sinergici.

Non ci sono state forti associazioni tra nessuno dei singoli componenti alimentari dei modelli alimentari esaminati e le prestazioni cognitive: sembra che la combinazione di alimenti che compone la dieta generale sia più importante per la salute del cervello.

Ha senso che la dieta MedDiet e APDQS abbiano prodotto una differenza positiva. Seguire abitudini alimentari sane fa bene!

La scoperta sorprendente è che la dieta DASH non ha avuto alcuna influenza sullo stato cognitivo, anche se nata con uno scopo preciso e diverso ovvero quello di abbassare la pressione.

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Mangiar sano e pensar positivo vanno a braccetto

Pensare in modo positivo ci fa anche mangiare meglio. A suggerirlo è uno studio dell’Università dell’East Anglia, pubblicato su Appetite.

La ricerca ha coinvolto 1125 consumatori a Taiwan, dove le abitudini alimentari sono cambiate e sono in aumento l’obesità, l’ipertensione e il diabete. I partecipanti sono stati interrogati sul loro coinvolgimento, cioè sul tempo e lo sforzo che hanno dedicato a scoprire l’alimentazione e in generale alla ricerca di cibo sano,  e sulla conoscenza nutrizionale.

In particolare lo studio si è focalizzato su due aspetti: la promozione e la prevenzione. Gli individui con un focus sulla promozione sono interessati a perseguire risultati positivi, ad esempio impegnandosi in comportamenti sani, mentre quelli con un focus sulla prevenzione cercheranno di prevenire conseguenze negative, ad esempio evitando comportamenti non salutari.

I risultati hanno mostrato che i partecipanti con una prospettiva più positiva avevano maggiore probabilità di avere buone abitudini alimentari, esattamente il contrario di coloro che erano più preoccupati di prevenire comportamenti non salutari. Questo effetto era maggiore tra i consumatori ad alto reddito e più forte fra gli uomini che tra le donne. Quest’ultimo secondo gli studiosi è un risultato atteso, perché le ricerche precedenti hanno dimostrato che le donne hanno in generale livelli più elevati di coinvolgimento nutrizionale.

“Le decisioni dei consumatori in merito ai comportamenti alimentari e all’alimentazione possono portare a conseguenze come alcune malattie e l’obesità che hanno implicazioni dirette sulle politiche di salute pubblica – spiega l’autore dello studio Kishore Pillai – l’obesità è prevenibile e il coinvolgimento dei consumatori nella nutrizione può aiutare a raggiungere questo obiettivo”.

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2 Aprile 2019 By Associazione Cuore Vivo

Diabete negli anziani: nuove linee guida

Sono state promanate nuove linee guida della Endocrine Society per rispondere ai molti e complessi problemi implicati nella gestione della crescente popolazione degli anziani diabetici. 

Come illustrato da Derek LeRoith della Icahn School of Medicine di New York, membro del comitato per le linee guida, per molti decenni non è stata prestata una grande attenzione agli anziani diabetici in quanto si presumeva che essi fossero caratterizzati da una speranza di vita limitata, ma oggi è noto che i soggetti fra i 60 ed i 70 anni possono sopravvivere anche oltre i 90 anni, e pertanto la prevenzione delle complicazioni a lungo termine acquista importanza per loro, esattamente quanto i problemi a breve termine.

Il documento sostiene lo screening regolare di diabete e prediabete negli anziani, che consentirebbe di intervenire tempestivamente, ed inoltre data l’eterogeneità dello stato di salute degli anziani diabetici esse propongono un contesto strutturato per aiutare i medici ad individualizzare gli obiettivi del trattamento.

Uno dei problemi principali consiste nell’evitare l’ipoglicemia. Un soggetto settantenne ipoglicemico potrebbe cadere e fratturarsi un’anca, e quindi è necessario prestare attenzione al sovra-trattamento, analogamente a quanto accade per l’ipertensione.

Le altre co-morbidità correlate all’invecchiamento trattate dalle linee guida comprendono sarcopenia, fragilità, disfunzioni cognitive, riduzione dell’aderenza alla terapia e perdita di indipendenza nelle attività quotidiane, ed inoltre vengono discusse sia le cardiopatie che le nefropatie.

Il campo di copertura delle nuove linee guida rispecchia quello delle linee guida ADA/AGS del 2012, ma esse enfatizzano la gestione dell’ipertensione e della lipidemia, nonché il ruolo del paziente come consulente del medico.

Secondo alcuni esperti il documento presenta alcune limitazioni, come ad esempio alcuni valori di riferimento forniti per alcune categorie di anziani che non sarebbero sostenuti dalle evidenze, oppure il fatto che non siano presenti istruzioni specifiche per la semplificazione dei regimi terapeutici, come sarebbe invece raccomandato per pazienti con speranza di vita limitata, deficit cognitivi e/o co-morbidità multiple.

Sarebbe inoltre necessario effettuare una distinzione fra l’assistenza prestata in ospedale e quella prestata in casa di cura, ed inoltre, per quanto le linee guida contengano un paragrafo sulla gestione dei pazienti con diabete di tipo 1, secondo alcuni questi pazienti meriterebbero linee guida separate, dato che le evidenze specifiche non sono molte e l’assistenza a lungo termine rappresenta un problema in questa popolazione.

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28 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

PERDERE PESO: ABBASSO L’INSULINA!

Le diete a basso contenuto di carboidrati derivano principalmente dall’ipotesi che l’abbassamento dell’insulina, ormone chiave che produce uno stato anabolico di accumulo di grasso, migliora la funzione cardio-metabolica e induce la perdita di peso.

Questo approccio è stato chiamato modello insulina- carboidrato.

Gli studi hanno dimostrato che i piani alimentari a basso contenuto di carboidrati sono superiori ad altri approcci per una rapida perdita di peso per i primi 6-12 mesi.

Mentre le diete tradizionali inducono perdita di peso tramite un deficit calorico, il meccanismo delle diete low-carb rimane in discussione. Un’ipotesi sul perché producano una più rapida perdita di peso rispetto ad altre diete è che i grassi e le proteine ​​aumentano la sazietà e producono meno ipoglicemia concomitante riducendo la fame e l’assunzione di cibo in generale e producendo quindi un deficit calorico.

Inoltre, un’altra ipotesi sostiene che le diete a basso contenuto di carboidrati possono produrre una combustione metabolica più elevata rispetto alle diete ad alto contenuto di carboidrati: sembra esserci un vantaggio metabolico di circa 200-300 calorie bruciate in più rispetto a una dieta iso-calorica ad alto contenuto di carboidrati.

Le diete chetogeniche limitano i carboidrati a 20-50 g al giorno per indurre la chetosi nutrizionale.

Lo studio delle diete a basso contenuto di carboidrati si è incentrato sulla perdita di peso nellepersone obese e in sovrappeso, nonché nei pazienti con o a rischio di malattie cardio-metaboliche come il diabete di tipo 2 e la steatosi epatica non alcolica.

Le diete chetogeniche sono state usate anche per i disturbi convulsivi e più recentemente hanno trovato impiego nella popolazione atletica come combustibile costante per prestazioni di resistenza e l’ottimizzazione della composizione corporea nell’allenamento ad alta intensità

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28 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Cibi ultra-lavorati, i rischi di un consumo eccessivo

Il Journal of American Medical Association (JAMA Internal Medicine) ha pubblicato una ricerca su un’ampia popolazione (più di 44mila persone) che mostra chiaramente come il maggior consumo di alimenti di produzione industriale ultra-lavorati sia associato a un aumento del rischio di mortalità per tutte le cause.

Più nello specifico, la ricerca, condotta su 44.551 adulti francesi di età pari o superiore a 45 anni, ha rilevato che un aumento del 10% della quota di alimenti ultra-lavorati nella dieta abituale è statisticamente associato a un rischio maggiore del 14% di mortalità per tutte le cause.

Che cosa si intende per alimenti ultra-lavorati? Per definirli questo studio utilizza una recente classificazione, chiamata NOVA, che divide gli alimenti in quattro gruppi, secondo il grado di lavorazione a cui vengono sottoposti prima di essere consumati.

Il quarto gruppo, quello degli alimenti ultra-lavorati comprende i cibi preparati con cotture o sistemi di conservazione distinti da quelli della cucina domestica e soprattutto con additivi diversi dai normali condimenti utilizzati in cucina, come, per esempio, esaltatori del sapore o sostanze che modificano il gusto.

I cibi ultra-lavorati, quindi, non sono solo piatti pronti o cibi precotti, hamburger e carni lavorate, ma anche cereali per la colazione, marmellate e numerosi altri prodotti presenti nello scaffale del supermercato.

Lo studio francese

Per verificare i possibili legami tra il consumo di cibi ultra-lavorati e aumento del rischio di mortalità per tutte le cause i ricercatori hanno selezionato una coorte di adulti con un’età media di 45 anni che partecipano allo studio NutriNet-Santé. Si tratta di una grande ricerca, lanciata nel 2009, basata sulla compilazione di questionari on line che documentano la dieta quotidiana. I dati sono poi completati con informazioni socio-demografiche, stile di vita, attività fisica, peso, altezza e altri dati antropometrici dei partecipanti. Per questo studio è stato selezionato un gruppo di persone che nel periodo tra il 2009 e il 2017 aveva completato on line un set di 3 questionari alimentari nelle 24 ore, per almeno due anni.

I ricercatori hanno valutato per ogni partecipante la proporzione (espressa in peso) degli alimenti ultra-lavorati presente nell’alimentazione. La mortalità è stata valutata utilizzando CépiDc, il registro nazionale francese delle cause specifiche di mortalità. Rapporti di rischio (HR) e IC al 95% sono stati determinati per la mortalità per tutte le cause, utilizzando modelli statistici.

Sul totale di 44.551 partecipanti, di cui 32.549 (73,1%) donne, con un’età media al basale di 56,7 anni (DS 7,5), gli alimenti ultra-lavorati rappresentavano una proporzione media del 14,4% (DS 7,6%) del peso del cibo totale consumato, corrispondente a una percentuale media del 29,1% (DS 10,9%) dell’apporto energetico totale.

Durante il follow-up si è verificato un totale di 602 decessi (1,4%). Dopo aggiustamento statistico per una serie di fattori confondenti, un aumento della percentuale di alimenti ultra-lavorati consumati è risultato associato a un più alto rischio di mortalità per tutte le cause (HR per incremento del 10%, 1,14, IC 95%, 1,04-1,27; P = 0,008 ).

I ricercatori concludono che: “un aumento del consumo di alimenti ultra-lavorati sembra essere associato a un rischio complessivo di mortalità più elevato in questa popolazione adulta; sono necessari ulteriori studi prospettici per confermare questi risultati e per chiarire i meccanismi attraverso i quali i cibi ultra-lavorati possono influire sulla salute.”

Il significato della ricerca

Questo significa che ogni volta che mettiamo una lasagna pronta nel microonde richiamo la vita? Evidentemente non è così e la necessità di evitare inutili allarmismi è sottolineata da diversi commentatori. In ogni caso, lo studio è un’importante conferma scientifica di quello che ormai fa parte di una buona educazione alimentare, ossia che le preparazioni industriali non devono prevalere sui cibi freschi e preparazioni semplici.

Non a caso, il profilo socio-demografico dei partecipanti mostra che un maggior consumo di cibi ultra-lavorati corrisponde all’età più giovane, reddito inferiore, livello di istruzione inferiore, BMI superiore e livello di attività fisica inferiore.

Si tratta quindi di conferme e indicazioni importanti per le raccomandazioni di salute e anche per le scelte dell’industria alimentare

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