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20 Dicembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

L’olio di oliva riduce il peso corporeo?

Una dieta arricchita con olio d’oliva può rappresentare una delle migliori strategie di controllo del peso nelle persone senza precedenti eventi cardiovascolari. Lo dimostra una revisione sistematica con meta-analisi condotta da ricercatori spagnoli.

NUTRIZIONE

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In diversi studi epidemiologici si evidenzia che l’olio d’oliva, come grasso fondamentale nella dieta mediterranea, può contribuire a ridurre l’obesità.
Non è ancora noto, però, se l’olio d’oliva da solo possa apportare una diminuzione del peso indipendentemente dalla dieta seguita.

Con l’obiettivo primario di determinare l’efficacia dell’olio d’oliva nel ridurre il peso corporeo, un gruppo di ricercatori spagnoli ha condotto una revisione sistematica con meta-analisi degli studi randomizzati controllati con un follow-up di almeno 12 settimane di intervento su adulti senza precedenti eventi cardiovascolari per stimare l’effetto di una dieta arricchita di olio di oliva, su peso, girovita e indice di massa corporea.

Lo studio è stato condotto interrogando i database PubMed, Embase, Cochrane plus, Web of Science, Ovid, Scopus, Virtual Health Library (BVS), TDX degli studi pubblicati fino a dicembre 2016.

Sono stati identificati 490 studi, di cui solo 11 hanno soddisfatto i criteri di inclusione. Si è così dimostrato che una dieta arricchita in olio d’oliva ha ridotto il peso più della dieta di controllo; lo stesso si è visto per la circonferenza della vita e per il BMI.

Va precisato che questi benefici sono stati osservati solo quando l’olio di oliva veniva inserito nella dieta nella sua forma naturale e non quando veniva somministrato in forma di capsule.

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20 Dicembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Aumento di peso: l’11% è dovuto alle … voglie

Dal cioccolato alla pizza, dal gelato alla pasta, il desiderio di mangiare determinati cibi in alcuni momenti della giornata è un classico ed è davvero difficile dire di no al cervello quando si impunta; tanto difficile che ben l’11% del nostro peso dipende da questo. A rivelarlo è una revisione di 28 studi sul tema, della Louisiana State University, pubblicata sulla rivista Current Opinion in Endocrinology & Diabetes and Obesity.

Le voglie possono sabotare gli sforzi per mantenere buone abitudini alimentari e un peso corporeo nella norma, indipendentemente dal periodo dell’anno, ma è possibile ridurle con alcune ‘armi’ come cambiamenti nella dieta e attività fisica. Per chi è affetto da obesità in modo importante, anche con la chirurgia bariatrica e con i farmaci. “Il desiderio di cibo influenza ciò che le persone mangiano e il loro peso corporeo, ma ci sono alcune componenti del nostro comportamento e della dieta che abbiamo il controllo – rileva Candice Myers, che ha guidato la ricerca- essere consapevoli di queste voglie ci dà più controllo”.

Ad esempio, un modo provato per ridurre il desiderio di un determinato alimento è quello di mangiarlo meno frequentemente. In altre parole, è meglio rimuovere qualcosa dalla dieta piuttosto che provare a mangiarne piccole quantità. Dalla revisione emerge anche che perdere peso riduce le voglie di cibo, così come il fatto che diversi gruppi socioeconomici possono avere diverse risposte a queste voglie. Ma si sa poco di queste potenziali differenze e sono necessarie ulteriori indagini.

Gli studiosi, che hanno esplorato il tema, avvertono però che le voglie non sono l’unico problema correlato all’aumento di peso o alla perdita. “Il desiderio di cibo è un pezzo importante del puzzle per la perdita di peso e non spiega l’aumento al 100 percento – conclude infatti Myers – sono coinvolti anche molti altri fattori, tra cui la genetica e il comportamento alimentare”.

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20 Dicembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Insufficienza cardiaca: esercizio utile a prescindere dai livelli iniziali di attività

I pazienti con insufficienza cardiaca sistolica stabile traggono beneficio dall’esercizio aerobico a prescindere dal livello iniziale di attività fisica, come emerge da un’analisi secondaria dello studio HF-ACTION, condotto su 1.494 pazienti.

Questo risultato si applica probabilmente a pazienti di un’ampia gamma di livelli di forma iniziale, anche se lo studio non ha investigato specificamente questo punto, come affermato dall’autore Jerome Fleg del National Institutes of Health statunitense. I pazienti con insufficienza cardiaca stabile dunque dovrebbero essere incoraggiati a prendere parte ad esercizi aerobici regolari, idealmente tramite un programma di riabilitazione cardiaca supervisionato.

Nello studio HF-ACTION l’esercizio fisico è risultato associato ad un miglioramento dei sintomi, della mortalità complessiva e dei ricoveri nei pazienti con insufficienza cardiaca, nonché ad una riduzione della mortalità per cause cardiovascolari e dei ricoveri specifici per insufficienza cardiaca.

L’esercizio proposto consisteva in deambulazione o cyclette supervisionati 3 volte alla settimana seguiti da esercizio domiciliare da effettuarsi preferibilmente 5 giorni alla settimana per 40 minuti a sessione al 60-70% della riserva di frequenza cardiaca.

Per quanto alcuni studi abbiano esaminato la correlazione fra livelli iniziali di attività e risposta all’esercizio nei pazienti con coronaropatie stabili, il presente studio è stato il primo ad esaminare questa correlazione nei pazienti con insufficienza cardiaca cronica.

Alcuni esperti affermano che sia difficile istituire programmi d’esercizio che ottengano risultati a lungo termine nella pratica clinica, ed anche nel presente studio l’aderenza all’esercizio era sub-ottimale, ma alcune strategie moderne come l’uso dei contapassi, gli accelerometri e la ripetuta interazione con altri, potrebbero aiutare ad ottenere risultati a lungo termine migliori.

Ad esempio il recente studio IPP ha dimostrato che i pazienti infartuati coordinati da assistenti alla prevenzione e che facevano uso di insegnamenti personalizzati e strategie telemetriche per 12 mesi hanno ottenuto risultati significativamente migliori rispetto all’assistenza convenzionale nel controllo prolungato dei fattori di rischio e nella qualità della vita. Questo genere di programmi andrebbe aperto a tutti i pazienti con insufficienza cardiaca, a prescindere dal loro livello di attività abituale.

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20 Dicembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Patologie cardiache: l’importanza della riabilitazione sessuale

Un programma di riabilitazione sessuale potrebbe contribuire a trattare la disfunzione erettile negli uomini che hanno malattie cardiache. È quanto suggerisce uno studio danese.

“I problemi sessuali hanno un profondo impatto negativo su diversi aspetti come la qualità della vita, il benessere generale, i problemi relazionali e gli outcome psicologici come depressione e ansia”, osserva Pernille Palm, autore principale dello studio del Copenaghen University Hospital Rigshospitalet.

“Per alcuni problemi cardiovascolari come la cardiopatia ischemica, la disfunzione erettile è un problema nell’80% degli uomini, continua l’esperto “I pazienti esitano a chiedere aiuto perché è ancora un tabù. Vogliono che gli operatori sanitari affrontino l’argomento, ma i professionisti della salute in generale non ritengono di avere la competenza o l’intervento corretto da offrire”.

Nello studio CopenHeart, Palm e colleghi hanno randomizzato 154 uomini per continuare con le normali visite ambulatoriali di follow-up o anche per prendere parte a un programma di riabilitazione sessuale di 12 settimane che comprendeva esercizio fisico e psicoeducazione sulla salute e sulla disfunzione sessuale.

Gli uomini avevano o cardiopatia ischemica o un defibrillatore cardioverter impiantabile. La metà aveva più di 62 anni. Quelli assegnati al programma di riabilitazione seguivano un regime cardio e di allenamento della forza, così come esercizi di stretching e del pavimento pelvico, oltre a un programma di counseling su misura, mirato ai problemi e le preoccupazioni specifiche di ciascuno.

Gli uomini hanno risposto attraverso questionari rispetto al loro funzionamento sessuale e al loro livello di benessere all’inizio dello studio, e il team di ricerca ha misurato la capacità di esercizio di nuovo dopo quattro e sei mesi.

Le misurazioni della funzione erettile includevano domande sulla qualità dell’erezione, sulla funzione orgasmica, sul desiderio sessuale e sulla soddisfazione del rapporto sessuale.

Un’altra serie di domande ha misurato la qualità di vita correlata alla malattia.
Il gruppo di ricerca ha scoperto che la riabilitazione sessuale, rispetto alle cure abituali, ha migliorato la funzione sessuale a quattro mesi e sei mesi.

Il programma di riabilitazione ha anche migliorato la capacità di esercizio e la forza del pavimento pelvico. Tuttavia, non vi è stata alcuna differenza tra i gruppi nella componente psicosociale delle valutazioni o nella salute fisica o psichica auto-riferita

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20 Dicembre 2018 By Associazione Cuore Vivo

Un po’ di buon vino allunga la vita

E’ tempo di banchetti e libagioni. Un po’ di buon vino a tavola non può mancare. A tale proposito Jean-Pierre  Rifler, ricercatore francese, ha recentemente pubblicato un’analisi delle conoscenze attuali. In questa revisione l’autore pone l’accento sugli effetti cardiovascolari del moderato consumo di vino, sostanzialmente mediati dal suo elevato contenuto in sostanze antiossidanti (polifenoli),  per proseguire sugli effetti energetici e sul potenziale effetto di allungamento della vita.

In altre parole si ribadisce l’efficacia dell’azione antiossidante del vino che è però esclusiva delle soluzioni alcoliche. Ovvero, il succo d’uva senza alcol – a detta dell’autore – non avrebbe alcuna di queste proprietà benefiche. In pratica è la piccola dose di alcol che consente la biodisponibilità dei polifenoli.

In conclusione, per Rifler, un consumo moderato di vino dopo i 50 anni, può allungare la vita. Bere meno e bere meglio per vivere più a lungo, questo vale specie per noi italiani che produciamo i migliori vini del mondo!

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