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28 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Cibi ultra-lavorati, i rischi di un consumo eccessivo

Il Journal of American Medical Association (JAMA Internal Medicine) ha pubblicato una ricerca su un’ampia popolazione (più di 44mila persone) che mostra chiaramente come il maggior consumo di alimenti di produzione industriale ultra-lavorati sia associato a un aumento del rischio di mortalità per tutte le cause.

Più nello specifico, la ricerca, condotta su 44.551 adulti francesi di età pari o superiore a 45 anni, ha rilevato che un aumento del 10% della quota di alimenti ultra-lavorati nella dieta abituale è statisticamente associato a un rischio maggiore del 14% di mortalità per tutte le cause.

Che cosa si intende per alimenti ultra-lavorati? Per definirli questo studio utilizza una recente classificazione, chiamata NOVA, che divide gli alimenti in quattro gruppi, secondo il grado di lavorazione a cui vengono sottoposti prima di essere consumati.

Il quarto gruppo, quello degli alimenti ultra-lavorati comprende i cibi preparati con cotture o sistemi di conservazione distinti da quelli della cucina domestica e soprattutto con additivi diversi dai normali condimenti utilizzati in cucina, come, per esempio, esaltatori del sapore o sostanze che modificano il gusto.

I cibi ultra-lavorati, quindi, non sono solo piatti pronti o cibi precotti, hamburger e carni lavorate, ma anche cereali per la colazione, marmellate e numerosi altri prodotti presenti nello scaffale del supermercato.

Lo studio francese

Per verificare i possibili legami tra il consumo di cibi ultra-lavorati e aumento del rischio di mortalità per tutte le cause i ricercatori hanno selezionato una coorte di adulti con un’età media di 45 anni che partecipano allo studio NutriNet-Santé. Si tratta di una grande ricerca, lanciata nel 2009, basata sulla compilazione di questionari on line che documentano la dieta quotidiana. I dati sono poi completati con informazioni socio-demografiche, stile di vita, attività fisica, peso, altezza e altri dati antropometrici dei partecipanti. Per questo studio è stato selezionato un gruppo di persone che nel periodo tra il 2009 e il 2017 aveva completato on line un set di 3 questionari alimentari nelle 24 ore, per almeno due anni.

I ricercatori hanno valutato per ogni partecipante la proporzione (espressa in peso) degli alimenti ultra-lavorati presente nell’alimentazione. La mortalità è stata valutata utilizzando CépiDc, il registro nazionale francese delle cause specifiche di mortalità. Rapporti di rischio (HR) e IC al 95% sono stati determinati per la mortalità per tutte le cause, utilizzando modelli statistici.

Sul totale di 44.551 partecipanti, di cui 32.549 (73,1%) donne, con un’età media al basale di 56,7 anni (DS 7,5), gli alimenti ultra-lavorati rappresentavano una proporzione media del 14,4% (DS 7,6%) del peso del cibo totale consumato, corrispondente a una percentuale media del 29,1% (DS 10,9%) dell’apporto energetico totale.

Durante il follow-up si è verificato un totale di 602 decessi (1,4%). Dopo aggiustamento statistico per una serie di fattori confondenti, un aumento della percentuale di alimenti ultra-lavorati consumati è risultato associato a un più alto rischio di mortalità per tutte le cause (HR per incremento del 10%, 1,14, IC 95%, 1,04-1,27; P = 0,008 ).

I ricercatori concludono che: “un aumento del consumo di alimenti ultra-lavorati sembra essere associato a un rischio complessivo di mortalità più elevato in questa popolazione adulta; sono necessari ulteriori studi prospettici per confermare questi risultati e per chiarire i meccanismi attraverso i quali i cibi ultra-lavorati possono influire sulla salute.”

Il significato della ricerca

Questo significa che ogni volta che mettiamo una lasagna pronta nel microonde richiamo la vita? Evidentemente non è così e la necessità di evitare inutili allarmismi è sottolineata da diversi commentatori. In ogni caso, lo studio è un’importante conferma scientifica di quello che ormai fa parte di una buona educazione alimentare, ossia che le preparazioni industriali non devono prevalere sui cibi freschi e preparazioni semplici.

Non a caso, il profilo socio-demografico dei partecipanti mostra che un maggior consumo di cibi ultra-lavorati corrisponde all’età più giovane, reddito inferiore, livello di istruzione inferiore, BMI superiore e livello di attività fisica inferiore.

Si tratta quindi di conferme e indicazioni importanti per le raccomandazioni di salute e anche per le scelte dell’industria alimentare

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28 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Italia un paese con sempre meno bambini: Mandorle e noci in aiuto alla fertilità maschile

Due porzioni al giorno (60 g) di frutta secca (noci, mandorle e nocciole) potrebbero aiutare gli uomini con problemi di fertilità. Il dato si riferisce ai risultati di uno studio americano presentato meeting della Società europea embriologia e riproduzione umana nel 2018.

Lo studio è stato finanziato dall’International Nut and Dried Fruit Council (INC), una fondazione che promuove le ricerche su noci e frutta secca, ed ha coinvolto 119 maschi in buona salute, di età compresa tra 18 e 35 anni, che sono stati divisi in due gruppi.

A un gruppo è stato chiesto di aggiungere alla normale dieta una combinazione di 15 grammi di mandorle, 15 grammi di nocciole e 30 grammi di noci al giorno per 12 settimane. L’altro gruppo ha seguito la sua abituale alimentazione. Al termine i partecipanti allo studio sono stati sottoposti ad esami del sangue e dello sperma.

I risultati sono stati pubblicati sull’American Journal of Clinical Nutrition. I ricercatori hanno notato nello sperma del gruppo a cui è stata aggiunta la frutta secca un conteggio degli spermatozoi superiore del 16% un miglioramento del 6% della motilità degli spermatozoi, una vitalità degli spermatozoi superiore del 4% (la quantità di cellule spermatiche vive e sane trovate nello sperma) e un miglioramento dell’1% nella morfologia degli spermatozoi (che si riferisce alle normali dimensioni e forma delle cellule spermatiche).

Questo studio conferma i risultati di una precedente sulle sole noci (75 g al giorno per 12 settimane) che ha riscontrato miglioramenti nella vitalità, nella motilità e nella morfologia degli spermatozoi, ma non nel conteggio totale

Secondo i ricercatori questi effetti si possono attribuire ad alcune componenti specifici dei semi oleosi, come vitamina E, acidi grassi omega-3 e omega-6 e folato. Le mandorle inoltre sono ad alto contenuto di zinco, che contribuisce alla fertilità.

Errori alimentari insieme ad altri fattori ambientali sono considerati fra le possibile cause dell’aumento dell’infertilità maschile che caratterizza i paesi occidentali. Questo studio indica un possibile effetto favorevole della frutta secca, anche se va considerato che si tratta di una ricerca su un numero limitato di persone sane, senza apparenti problemi di fertilità

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12 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

Omega-3, di nuovo in primo piano per la prevenzione CV

Uno studio danese e due grandi trial americani confermano l’utilità nella prevenzione di ictus e infarto

Sulle potenzialità degli acidi grassi Omega-3 nella prevenzione degli eventi cardiovascolari recentemente sono stati sollevati dubbi. In particolare, una revisione scientifica sistematica su 79 studi con 112mila pazienti,  uscita quest’estate ha mostrato che un’aggiunta, sotto forma di integratori di acidi grassi Omega-3 a catena lunga, (acido eicosapentaenoico- EPA e acido docosaesaenoico-DHA) non sembra ridurre in modo significativo il rischio di morte per ogni causa, né l’incidenza di malattie cardiovascolari (infarto, ictus, aritmie).

Tuttavia i risultati di altre ricerche da poco pubblicati riportano in primo piano vantaggi specifici nella prevenzione cardiovascolare degli acidi grassi polinsaturi (PUFA).

Uno studio danese pubblicato da poco sulla rivista Stroke ha verificato l’associazione tra vari tipi di ictus e la quantità di Omega-3 assunti con il pesce, verificando anche la maggiore o minore presenza di acidi grassi nel tessuto adiposo dei soggetti esaminati.

I pazienti appartenevano a un gruppo di 57.053 persone di età compresa tra 50 e 65 anni (The Diet, Cancer and Health cohort), che hanno compilato un questionario sulle abitudini alimentari e sono stati sottoposti a una biopsia del tessuto adiposo al basale. Durante 13,5 anni di follow-up 1.879 partecipanti allo studio hanno sviluppato un ictus ischemico.

Le persone con una maggior quantità di EPA nel tessuto adiposo hanno avuto una minore incidenza di ictus (HR 0,74, IC 95% 0,62-0,88), inoltre sono stati rilevati tassi minori di aterosclerosi nelle persone che assumevano con la dieta più PUFA n-3 contenuti nei pesci grassi (sgombro, salmone). Al contrario il rischio cardioembolico è risultato maggiore in chi assumeva più PUFA n-3 con la dieta e ne aveva una maggiore quantità nel tessuto adiposo.

Gli autori concludono: “L’EPA è risultato associato a un rischio più basso della maggior parte dei tipi di ictus ischemico, a parte il cardioembolismo, mentre sono stati osservati risultati poco significativi per l’assunzione totale di PUFA n-3 dal pesce.”

A questi dati si aggiungono i risultati di due studi presentati all’ultimo meeting della American Heart Association (AMA) e pubblicati sul New England Journal of Medicine.

Lo studio randomizzato, in doppio cieco Reduce-IT  condotto su una popolazione di oltre 8.000 soggetti con livelli di trigliceridi compresi tra 150 e 500 mg/dl, già in terapia con statine. Lo studio ha evidenziato che il rischio di eventi ischemici, inclusa la morte cardiovascolare, è risultato significativamente più basso tra coloro che hanno ricevuto 2 g di un prodotto ultra-puro a base di un acido grasso omega-3 (EPA) due volte al giorno, rispetto ai soggetti trattati con placebo.

La riduzione degli infarti fatali e non fatali, nel gruppo di pazienti che avevano assunto l’Omega-3, è stata del 31% rispetto al gruppo di controllo, mentre il rischio di ictus fatali o non fatali è diminuito del 28%. La terapia con Omega-3 in questa popolazione di pazienti ha ridotto del 20% il rischio di mortalità cardiovascolare.

Lo studio VITAL ha evidenziato l’efficacia degli Omega-3 nella prevenzione primaria dell’infarto del miocardio. Lo studio è stato condotto su una popolazione di 25.871 americani adulti sani (età media 50 anni per gli uomini, 55 per le donne), senza una storia di malattia cardiovascolare pregressa. Per una durata di 5,3 anni i soggetti sono stati trattati con vitamina D3 e/o con 1 g/die di Omega-3.

Dall’analisi dei risultati dello studio è emersa una riduzione del rischio di infarto del miocardio pari al 28% e del rischio di infarti fatali  del 50%. L’effetto è stato maggiore tra i partecipanti che consumavano poco pesce (meno di 1,5 porzioni la settimana), tra i quali anche la riduzione degli eventi cardiovascolari totali è risultata significativa, e pari al 19%

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12 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

La prima colazione è veramente il pasto più importante?

L’introduzione della prima colazione nei soggetti che la saltano potrebbe non essere una buona strategia per perdere peso. Buona notizia per gli Italiani che cominciano la giornata con un solo caffè.

Un nuovo studio uscito su una delle più autorevoli riviste mediche internazionali (British Medical Journal), che ha avuto una vasta eco, sembra far vacillare una delle convinzioni più diffuse in tema di dieta sana: l’importanza della colazione del mattino.

Lo studio ha analizzato 13 trial di confronto fra gruppi che facevano colazione e gruppi che non la facevano per rilevare le differenze nel controllo del peso e nell’assunzione calorica. Le differenze sono risultate trascurabili, anche se, precisano gli autori, i dati presentano molte disparità e incoerenze che consigliano di valutare con cautela i risultati.

Basta questo per decretare la fine del famoso assunto che la colazione è il pasto più importante della giornata?

Se lo chiede in un editoriale di commento Tim Spector, genetista del King’s College di Londra, che scrive tra l’altro: “Gli svantaggi di saltare la colazione sono stati sfatati da diversi studi randomizzati. Nessuna prova supporta l’affermazione che saltare la colazione fa ingrassare o riduce il tasso metabolico a riposo.”

Spector nel suo editoriale fa un’interessante ricostruzione di come si sia radicata la convinzione a livello scientifico che saltare i pasti, e la colazione in particolare, abbia effetti negativi sull’organismo.

Innanzitutto c’è l’idea che mangiare poco e spesso sia vantaggioso rispetto a fare pasti più abbondanti che richiedono più energie per la digestione, specialmente nelle ore serali in cui i picchi di glucosio sono più alti e i tassi metabolici più bassi. In realtà, dice Spector, queste convinzioni si basano su studi su piccoli animali da laboratorio e pochi studi a breve termine sugli esseri umani.

Diversi studi osservazionali invece hanno messo in rilievo che le persone obese o con diabete tendono a saltare i pasti con più frequenza rispetto ai normopeso e anche questo ha rafforzato l’idea che saltare i pasti possa contribuire al sovrappeso. Tuttavia, scrive Spector, questi studi sono stati viziati da pregiudizi. Le persone che hanno saltato la colazione erano in media più povere, meno istruite, meno sane e con una dieta generalmente più povera. Le persone in sovrappeso erano più propense a provare a seguire una dieta e, dopo un’abbuffata, avevano maggiori probabilità di sentirsi colpevoli e quindi saltare un pasto.

In ogni caso l’idea che saltare un pasto non sia sano è molto radicata in tutte le linee guida anglosassoni. Non saltare la colazione fa parte delle raccomandazioni del Servizio Sanitario inglese (NHS) ed è uno degli otto consigli per una dieta sana delle linee guida dietetiche del Dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti.

Oggi, però – fa notare Spector – esistono nuove evidenze riguardo i possibili vantaggi di periodi limitati di digiuno soprattutto in relazione alla salute del microbiota intestinale.

“La comunità di 100 bilioni di microbi intestinali – scrive Spector – ha un ritmo circadiano e nei momenti di digiuno varia in composizione e funzione. Sebbene questa sia una disciplina giovane, alcuni dati suggeriscono che le comunità microbiche potrebbero beneficiare di brevi periodi di digiuno. Loro, come noi, potrebbero aver bisogno di riposare e recuperare, il che potrebbe essere importante per la salute dell’intestino.”

In conclusione, avverte Spector, questo non significa che saltare la colazione debba essere considerata una strategia utile, ma solo che il funzionamento del metabolismo nell’arco della giornata non è uguale per tutti e alcune persone sembrano programmate per assumere cibo prima e altre più tardi

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7 Febbraio 2019 By Associazione Cuore Vivo

DIGIUNARE PER DIMAGRIRE?

Sono pochi gli studi che documentano periodi lunghi di digiuno in grandi coorti, anche in persone non obese. Sono approcci sicuri? Come cambiano gli indicatori biochimici?

Uno studio osservazionale di un anno lo ha descritto in 1422 soggetti che hanno partecipato a un programma di digiuno sotto controllo medico in una clinica specializzata. Il trattamento era costituito da periodi di digiuno tra 4 e 21 giorni.

I soggetti sono stati raggruppati in periodi di digiuno di 5, 10, 15 e 20 ± 2 giorni.

I partecipanti digiunavano con un apporto calorico giornaliero di sole 200-250 kcal e un programma di attività di intensità moderata. I parametri clinici, gli effetti avversi e il benessere sono stati documentati giornalmente.

Sono state osservate riduzioni significative del peso, della circonferenza addominale e della pressione arteriosa nell’intero gruppo (ciascuna p <0,001).

È stato dimostrato un effetto modulante benefico del digiuno sui lipidi del sangue, sulla glucoregolazione e su ulteriori parametri ematici di salute generali.

In tutti i gruppi, il digiuno ha portato a una diminuzione dei livelli di glucosio nel sangue e ad un aumento dei livelli di corpi chetonici (ciascuno p <0,001), documentando l’attivazione metabolica.

I soggetti hanno dichiarato un aumento del benessere fisico ed emotivo (ogni p <0,001) e l’assenza di sensazione di fame nel 93,2% dei casi, sostenendo la fattibilità del digiuno prolungato.

Tra i 404 soggetti con disturbi di salute preesistenti, 341 (84,4%) hanno riportato un miglioramento. Gli effetti avversi sono stati riportati in meno dell’1% dei partecipanti.

Altro approccio è quello della dieta ferrea durante i weekend o le vacanze. E’ efficace per non riprendere peso? Uno studio ha verificato il mantenimento a lungo termine della perdita di peso.

Sono stati 108 i partecipanti portoghesi che hanno indicato se avevano una dieta più o meno rigorosa durante i fine settimana rispetto ai giorni feriali e nei periodi di vacanza rispetto i non festivi.

Il peso e l’altezza sono stati misurati al basale e al 1 ° follow-up. Una variazione del peso massimo del 3% ha definito i partecipanti come “non-regainer”.

Ne consegue che l’adozione di una dieta meno rigorosa durante i fine settimana, rispetto ai giorni feriali, è una strategia comportamentale associata alla gestione del peso a lungo termine.

Questo studio ha cercato di esaminare come la rigidità della dieta influenza il mantenimento della perdita di peso. I partecipanti che hanno riportato una dieta più rigorosa durante i fine settimana avevano una probabilità statisticamente più alta di riacquistare più del 3% del loro peso in 1 anno, rispetto a quelli che riportavano una dieta meno rigorosa durante i fine settimana.

Fornire un approccio dietetico più rigoroso durante il fine settimana, rispetto ai giorni feriali, può essere controproducente e dovrebbe essere evitato in coloro che cercano di mantenere la propria perdita di peso

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